La marcia dei colpevoli

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Aborted_666
view post Posted on 2/5/2011, 19:58




Nick autore: Aborted_666
Titolo storia: La marcia dei colpevoli
Titolo capitolo: Buio fin nell'anima
Genere: Drammatico, Erotico, Azione, Romantico.
Avvertimenti: Slash, Lemon, LongFic
Breve introduzione:Al desidera solo la libertà, in un mondo in cui regna la corruzione e in cui il diritto di parola è stato soppresso dalla dittatura dello Stato. Fuggito da Vanesia, una misteriosa associazione a delinquere di cui lui stesso era entrato a far parte, cercherà di riportare a galla i diritti e gli ideali che gli sono stati sottratti, cercando di non affogare nel degrado di cui la città è vittima. Questo scenario fa da sfodo ad una turbolenta relazione fra Al ed un superiore appartenente ad un organizzazione avversaria, che, resosi conto dello stato delle cose, si ribellerà al sistema corrotto in cui è improgionato.
Eventuali note: questa fanfiction l'ho scritta almeno tre anni fa e, wow, m'è venuta voglia di completarla! I primi tre capitoli sono già scritti (non voglio modificarli, quindi come arrivano, arrivano xD!).

LA MARCIA DEI COLPEVOLI
- Capitolo I: «Buio fin nell'anima»


C'era buio.
L'aria era pregna d'un buio così denso da dare l'impressione di poterlo toccare. Solo il suo corpo sembrava emanare un fioco bagliore, rientrando così nel suo campo visivo.
E c'era silenzio.
Le sue orecchie erano diventate così sensibili che perfino il gocciolare sommesso dell'acqua, in lontanaza, gli sembrava l'eco morente di un grido spaventoso. E faceva male. Faceva paura il dover temere anche solo i fruscii dei ratti nelle tubature. Faceva impazzire quel silenzio carico di tensione ed aspettative.
Tastò il pavimento umido sotto al suo corpo, in cerca di una parete su cui potersi appoggiare. Strisciò lentamente fino ad essa, sospirando. Erano quei piccoli piaceri che si era abituato ad apprezzare anche in una situazione del genere, chiuso in una cella sotterranea che puzzava di stantìo, che lo facevano sentire ancora vivo e recettivo.
Il freddo, a volte, intorpidiva i suoi muscoli preda dell'inattività protratta troppo a lungo. Ma di muoversi non ne aveva voglia.
Fissò la coltre scura davanti ai suoi occhi, cercando di contare i giorni di prigionia.
Quattro? Cinque? Forse una settimana.
Le giornate erano prive di sole, di luna e di stelle, là dentro. Non avevano nè un inizio e nè una fine e ciò rendeva ancora più difficile la percezione spazio-temporale. Semplicemente erano frammenti di tempo appartenenti tutti ad una stessa retta più o meno lunga e dritta, senza curve, senza picchi, senza gioie e senza soddisfazioni.
Un clangore, come di una pesante porta di metallo che viene aperta, lo ridestò dal sonno senza sogni in cui era crollato senza nemmeno accorgersene. A causa dell'umidità il collo gli doleva terribilmente, rendendogli anche il più piccolo movimento una tortura.
Dei passi lontani risuonavano scandendo i secondi, mantenendo un ritmo cantilenante e monotono.
Tap
...Uno...
Tap
...Due...
Tap tap tap.
Tre, quattro, cinque.
Man mano che i passi si avvicinavano, il suo udito sensibile coglieva con più precisione la provenienza di quello scalpiccìo, avvertendone anche il rimbombo ovattato ed inquietante. Un subordinato, quasi di sicuro. L'attenzione morbosa che prestava ogni volta che qualcuno entrava nei sotterranei, unita alla sua sviluppata percezione del suono, l'aveva portato a riconoscere con precisione - rare erano le volte in cui sbagliava - il grado d'importanza di colui che gli si avvicinava, grazie al differente suono emesso dai diversi tipi di calzature che contraddistinguevano subordinati e superiori.
Poco lontano una pallida luce accese il nero del nulla che lo circondava, infastidendo i suoi occhi disabituati.
Infine ogni rumore cessò davanti alla sua cella e la flebile luce che prima aveva solo intravisto gli venne puntata addosso, illuminando una quantità spropositata di ferite che lui stesso, circondato dal buio e dall'apatia, si era dimenticato di avere.
L'uomo appoggiò un vassoio in terra e lo fece scivolare con i piedi all'interno della gabbia, tramite un'apertura stretta e bassa all'altezza del pavimento.
«Mangia», disse con voce piatta, atona. Più che una gentile offerta, quella suonò come una vera e propria imposizione, come se a loro premesse tenerlo in vita, anche al minimo delle forze. Era proprio così, lo sapeva bene.
Il prigioniero lo guardò con gli occhi stretti a due fessure, senza però lasciar trapelare nessun pensiero, nemmeno la fame che lo attanagliava.
Era colazione, pranzo o cena? Non che gli interessasse saperlo, ma non ricordava quand'era avvenuto il suo ultimo pasto. Sicuramente diverse ore prima. Non indugiò oltre: appena il buio si impadronì nuovamente dell'area gattonò fino al vassoio e, silenziosamente, senza nemmeno sapere cosa fosse, consumò la sua razione.

***



Spesso veniva travolto dai ricordi dolorosi, mentre si lasciava dilaniare dall'ozio forzato. Così accadde anche in quell'istante.
Non rammentava precisamente il giorno in cui Sid se n'era andato da Vanesia.
Semplicemente era sparito, senza lasciare tracce di sé. Senza nemmeno dar modo di ricordarsi del suo passaggio. Al non ascoltò i dialoghi di Vanesia che incriminavano il suo amico, dando fede ad un'antica promessa che avevano stretto, vittime del terrore che l'organizzazione esercitava su di loro, di fuggire, un giorno... Incastrati insieme in quel gioco d'azzardo dal finale scontato, a lottare per la vita quotidianamente e a calpestare i propri ideali - l'uno con l'altro, per non dover deludere se stessi -.
L'avevano cercato per giorni, settimane, ma alla fine era stato dato per disperso.
Al attese per giorni un messaggio, una lettera, ma solo dopo aver appurato che questa non sarebbe mai arrivata si arrese all'evidenza che Sid lo aveva tradito ed era fuggito senza di lui.
L'organizzazione non lo avrebbe perdonato. Non si erano mai fatti scrupoli ad uccidere gli oppositori, i traditori e i personaggi scomodi e, certamente, Sid sapeva troppo per poter rimanere a piede libero.
Per questo Sid non tornò mai.
Per questo, quando l'organizzazione lo trovò, venne eliminato. Ed allora sì che sparì davvero, senza lasciare traccia di sé e senza nemmeno dar modo di ricordarsi del suo passaggio.
Sid era scomparso per due volte, ma ormai era inutile cercarlo.
Per questo motivo Al si era lasciato catturare. Ormai la sua esistenza non aveva più senso.
Tradito dal suo migliore amico, dalla sua organizzazione, dai suoi ideali e da se stesso, non sentiva più lo stimolo per continuare a fuggire e la forza che animava la sua ricerca si spense dopo che venne a conoscenza della sorte di Sid.
Vanesia, Dorea e perfino la polizia di stato erano sulle sue tracce e non importava, ormai, chi fosse il suo caceriere o il suo boia.
Il sole, la luna e le stelle non si vedevano più nemmeno fuori da lì: il cielo ero un piano monocromatico e privo di profondità. Il mondo era diventato un involucro troppo stretto e opaco, dal cui interno non si scorgeva più il profilo sfocato degli astri e delle persone.

Il flusso di pensieri che lo aveva travolto venne interrotto nuovamente da dei rumori.
I tacchetti degli stivali di pelle cozzavano ripetutamente contro il pavimento sporco e, come un cuore che batte furiosamente, risuonavano decisi e si perdevano nel silenzio statico.
Si concentrò sul suono che essi producevano, tendendosi nell'oscurità. Non era un subordinato, questa volta.
Un uomo alto e dall'aspetto ombroso si fermò davanti alla cella di Al, lanciandogli uno sguardo severo ed altezzoso. Lo osservò dall'alto della sua posizione eretta, inizialmente senza dire nulla.
Allungò una mano verso di lui, coperta da un guanto nero, puntando sul suo viso emaciato il fascio luminoso di una lampada.
«Dov'è ubicata Vanesia?», domandò. La voce ferma venne inghiottita dal buio ed echeggiò in lontananza. L'uomo si chinò leggermente in avanti, in modo da osservare il cambio di espressioni sul volto del carcerato.
Al stette in silenzio, troppo orgoglioso, troppo spaventato, troppo confuso e troppo stordito dal tono di voce del superiore che gli stava dinnanzi.
Rimase sul fondo della cella, così da poter mantenere una discreta distanza tra lui e quell'individuo.
«Dov'è Vanesia?», ripetè l'altro. La voce vacillò per la rabbia, ma ugualmente risuonò nella stanza con potenza ed insistenza.
«Sei qui da quasi una settimana e non vuoi parlare?!» L'uomo battè il piede in terra con impazienza. Sia il ringhio del superiore che il battito del tacco al suolo si spensero nell'eco sommesso.
«Parla se non vuoi che ti picchi a sangue», lo minacciò. La sua voce era macchiata da una nota di finta pazienza, a sottindendere che ormai non gli rimaneva più nessun'altra alternativa.
L'intenzione di Al non era quella di proteggere Vanesia, ma la voce non voleva uscire. Rimaneva bloccata in fondo alla gola e gli impediva di respirare. Aprì la bocca, ma ne uscì solo un gemito strozzato. Un brivido scosse il suo corpo livido, presagendo il seguito di quella conversazione.
Il superiore estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca, gettandogli un ultimo sguardo accondiscendente. Poi il suo volto si contrasse in una smorfia seccata.
«Come vuoi», sentenziò, entrando dentro alla piccola cella.
Al chiuse gli occhi: non c'era bisogno di guardare, non c'era bisogno di ascoltare e nemmeno di provare sentimenti o dolore.
No, non ce n'era bisogno - ma ogni volta era inevitabile.
«Alzati», pronunciò il superiore, piantando la punta dello stivale nel fianco del prigioniero, abbastanza forte da farlo piegare su se stesso.
«Ho detto di alzarti, non di accasciarti come un invertebrato!», ribadì, senza distogliere lo sguardo dalla nuca dell'altro.
Al puntò le mani sul pavimento in cerca di una spinta per alzarsi, ma ricadde al suolo, tremando e ansimando.
«Alastor, vero? - il superiore, chinatosi al fianco del carcerato, l'afferrò per i capelli e gli sollevò il viso, in modo da poterlo guardare negli occhi. - Conosciamo il tuo vero nome, ora Vanesia non ti vorrà più», gli sussurrò in un orecchio, rafforzando la presa sulla sua chioma. Al scosse impercettibilmente il capo. Le sue sopracciglia si aggrottarono in segno di diniego, ma non trovò spunti per ribattere alla sua provocazione.
«Vanesia mi vuole morto», pronunciò infine. Al sentì la sua voce arrochita dal lungo letargo, quasi dubitò d'esser stato lui a parlare. Gli impulsi nervosi che gli segnalavano il dolore pulsante alla cute avevano sciolto il blocco che gli impediva di esprimersi.
«Allora non sei diventato muto - ironizzò l'altro, con una punta di rabbia a deformargli la voce profonda - Questo aggrava il tuo silenzio. Ora alzati. E seguimi», ordinò perentorio, liberandolo dalla stretta ai capelli e rimettendosi in posizione eretta.
Alastor riuscì faticosamente ad eseguire l'ordine impostogli e, barcollando, si mise in piedi. L'altro, pur constatando la debolezza del progioniero, gli costrinse i polsi in un paio di manette - perchè non poteva permettersi errori o sviste.
Nel percorrere il vacuo corridoio che conduceva all'uscita dei sotterranei Al non riuscì ad identificare i suoi stessi passi.

Continua...

Edited by Aborted_666 - 6/5/2011, 21:15
 
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NonnaPapera!
view post Posted on 5/5/2011, 10:04




Ok ok letta :D scusa il ritardissimo ma l'avevo messa tra le pagine preferite per leggerla e non ho avuto tempo in questi giorni :D
Che dire?Wow interessantissima, continua ti prego che sono curiosa come una scimmia *-*
 
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view post Posted on 10/8/2011, 22:14
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Si, continuala ** Adoro il genere angst. Sono abbastanza perversa, lo ammetto U_U
 
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