Latitudine. 46° N - 21° N; Longitudine 122° E - 146° E, Arancio/ Rosso_ Partecipante al contest Around the World

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Kaite
view post Posted on 11/8/2011, 14:39




Nick autore: Kaite
Titolo storia: Latitudine. 46° N - 21° N; Longitudine 122° E - 146° E
Genere: Romantico
Avvertimenti: Lemon; Slash; Long- fic
Breve introduzione:
Jack Kerouac l’aveva detto con parole semplici ed efficaci.
C’è la città chiamata Los Angeles anche se nessuno riesce a vedere che cosa possa averci a che fare con gli angeli.
Eventuali note:
Il titolo indica le coordinate del Giappone.

Partecipante al contest Around the World

Latitudine. 46° N - 21° N; Longitudine 122° E - 146° E



Los Angeles era un ossimoro.
La contraddizione vinceva in partenza, dallo stesso nome, che per esteso recitava qualcosa come El Pueblo de la Iglesia de Nuestra Señora la Reina de Los Angeles de Porciúncola, più o meno traducibile come la Città della Chiesa della Nostra Signora, Regina degli Angeli della Porziuncola.
Eppure nulla in quelle strade, richiamava un Paradiso.
Non era la ricerca di Dio che ti portava in una metropoli del genere, la terza città degli Stati Uniti, un centro culturale, economico, scientifico mondiale. No, come tutte le grandi luci, ciò che attirava tante persone era più la fede in qualche demone terreno che la voglia di redenzione.
Jack Kerouac l’aveva detto con parole semplici ed efficaci.
C’è la città chiamata Los Angeles anche se nessuno riesce a vedere che cosa possa averci a che fare con gli angeli.
E Nicholas Coleman l’aveva sempre saputo, ci aveva sempre creduto, e per questo aveva scelto quella città come spettatrice del grande spettacolo della sua ascesa.
Aveva fatto di quei grattacieli circondati da montagne la sua scenografia; aveva trasformato il rumore dei clacson, dei tacchi nella folla, il rombo del traffico aereo nella colonna sonora.
All’ambizione, poi, era toccato il ruolo di regista; all’arroganza quello di prima donna; al suo bel volto la pubblicità; l’intelligenza sarcastica era servita da gobbo.
Aveva permesso alle giuste comparse di calpestare il suo palco e aveva scelto con cura gli altri protagonisti.
Il premio ambito era tutto lì, nella chiave del successo.
Il profumo della vittoria somigliava all’odore di pelle del suo divano di classe; il colore a quello della scrivania, il cui costo avrebbe fatto impallidire tante massaie.
In effetti, Tutto il suo studio era l’immagine della sua riuscita, dalle rifiniture degli infissi, al panorama di luci e acciaio sul quale affacciavano le grandi vetrate, al mobilio stile Barcellona.
Vivere quell’ambiente era stato lo scopo di tutto. Ottenerlo aveva significato passare la linea del traguardo.
L’ottimo intuito, la caparbietà negli studi, la grandi occasioni che si era creato avevano fatto di lui uno dei più grandi consulenti finanziari di quella città.
La ricchezza si nascondeva in ogni angolo e si mostrava in ogni riflesso in quella stanza.
L’invidia di tanti occhi si rifletteva nelle cornici di argento, in bella vista sulla scrivania.
Volti sorridenti, sullo sfondo la villa fuori città, le tinte pastello dei prati e del sole.
Il viso della moglie, il trofeo che primeggiava su tutti.
Eleonor Murray era stata una donna degna delle aspettative.
Non solo per il mondo di conoscenza e rapporti che gli si era aperto davanti nella maniera più facile e diretta, al solo costo di starle vicino, ma anche per la sua grazia e la sua bellezza che avevano contribuito all’immagine di perfezione del quadro che ormai era la sua vita.
Il loro matrimonio era stato invidiato per anni.
L’eleganza di lei, nel suo abito bianco, di seta, il lungo strascico ricamato dalle migliori sarte europee, accanto alla sua figura in nero, nell’impeccabile smoking da cerimonia, era viva in una foto inquadrata nella cornice più grande.
In quella vicina, più piccola e orizzontale, c’era un ritratto di famiglia di appena qualche mese prima.
Judith stava sulla sinistra, artificialmente messa in posa, come ogni principessina di sei anni. I tratti della madre riportati fedelmente sul suo volto, come gli occhi scuri del padre di lei colorati dallo stesso sguardo di dispettoso senso di superiorità, ma più profondi e attraenti soprattutto sotto i capelli neri in ogni riflesso come i suoi, quelli di Nicholas.
Quasi per contraddizione, il viso un po’ sperduto del più piccolo che né dalla famiglia della madre né dai geni del padre sembrava aver preso la cattiveria e l’arroganza degli occhi. Del consulente, si riconosceva il colore, quel verde che si ritrovava sul fondo di certe bottiglie, ma completamente ripulito da ogni arguzia e interesse, la forma delle sue labbra, schiuse in un sorriso vero, le piccole fossette passate dalla madre.
Chiunque entrasse nella stanza, non poteva che far cadere lì l’attenzione e credere davvero possibile quel tipo di famiglia pubblicizzata alla televisione.
La luce del giorno ripuliva ogni angolo e spigolo, in modo diffuso, e qualsiasi cliente non poteva che provare già fiducia per l’uomo che sedeva al di là della scrivania.
Di giorno, sembrava che i raggi solari si divertissero a profanare quel luogo, che lo coccolassero, lo cercassero.
Di giorno, potevi facilmente immaginare che la più piccola ombra temesse quello studio come un fiocco di neve l’equatore.
Eppure, allo stesso tempo, immaginarlo era già illudersi, era già cadere nella trappola.
Los Angeles, in fondo, era un ossimoro. E quello ne era il cuore.
Il sole tramontava presto dietro gli altri grattacieli e la notte arrivava ancor prima del dovuto.
Le ombre profanavano ogni riflesso che fosse sull’acciaio, sul legno o l’argento, divorando lo spazio in una rivincita quasi affamata.
Le foto parevano scurirsi di una tonalità.
La luce dal soffitto quasi mai veniva accesa.
Bastava la lampada sulla scrivania e il led del grande schermo del pc.
Bastava quello per far diventare il teatro una grotta.
Era più che sufficiente per rilassare i muscoli, la testa riversa dietro, sullo schienale della poltrona, le dita allentate intorno al bicchiere di wisky.
Era sufficiente quello per ritrovare davvero se stesso.
Nell’altra faccia della medaglia, con la cravatta allentata e la voglia di urlare annodata in gola.
Ciò che era stato il sogno di una vita si era presto tramutato in una gabbia; una gabbia bellissima e con sbarre d’oro, ma che restava sempre una prigione.
Il quadro del suo studio, che tanto aveva cercato di dipingere da bambino aveva preso consistenza negli anni, si era concretizzato, era diventato vero, tangibile.
Ma piano, nel tempo, i dettagli avevano iniziato a cambiare.
Come il protagonista di un ben celebre romanzo, si era ritrovato a dover nascondere quella tela nel buio, con essa ogni suo peccato.
Così, quell’ambiente acquistava un altro valore.
Dal perfetto palcoscenico del suo successo diventava una quinta della persona che era più che dell’attore e, infine, si trasformava in grotta, un rifugio agli occhi della città.
Restare fino a tarda notte lì era ormai diventata un’esigenza quotidiana.
Con sguardo annoiato spense anche il monitor quando l’orologio quasi segnava le tre.
Arrivava sempre, verso quel punto della notte, l’istante in cui si sentiva pronto a rinunciare a tutto.
Pronto ad ammettere di aver sbagliato ogni cosa e con animo umile voler ricominciare d’accapo.
Era il momento limite, quello che passava sulla soglia della stanchezza, dopo una giornata di logorii.
Per fortuna, si diceva invece la mattina, era solo un attimo. Così come arrivava, si spegneva una volta rientrato in casa, nello stendersi accanto alle curve della donna che sembravano non aver ricordo di due gravidanze.
D’altra parte aveva scelto quella città perché la sentiva sua.
Nicholas Coleman stesso sapeva di essere un ossimoro.

Los Angeles era un sogno.
Quando il più grande dei suoi fratelli, Raul, aveva ricevuto una promozione e aveva saputo di doversi trasferire, lui era stato il primo a gioirne.
Un brivido l’aveva percorso già a sentirne la pronuncia e la smania di volerlo raggiungere era scattata subito.
“Prima finisci gli studi, poi vediamo” l’aveva bloccato la madre, buttando acqua gelida sul suo entusiasmo.
Sbuffando e imprecando, aveva abbassato lo sguardo e stretto i denti, sapeva bene che non avevano la capacità economica di permettersi una scuola californiana.
Miguel Perez odiava profondamente il Messico.
Odiava profondamente vivere così vicino al confine con gli Stati Uniti e in un mondo così lontano.
La mentalità retrograde, con la quale aveva dovuto fare a pugni dall’alba dell’adolescenza, era una corda troppo stretta al collo.
Quando a quattordici anni si era impuntato sulla soglia di casa, esclamando con un’espressione ferma e convinta “Non ci vengo oggi a messa, sono gay!”, la madre era svenuta, il padre aveva quasi pianto e il secondogenito non gli aveva rivolto la parola per mesi né si era avvicinato alla sua biancheria come se fosse contagiosa di chissà quale strana malattia.
Solo quando Raul quella notte l’aveva abbracciato e gli aveva sussurrato un “Non importa chi ami, purché tu lo faccia sempre con il cuore”, aveva capito di non aver fatto un errore.
La nota di orgoglio chiara nella voce del fratello era bastata ad illuminare la strada davanti a sé.
Non avrebbe mai accettato nulla che gli fosse imposto, non avrebbe mai accettato di tacere.
Tacere su stesso o tacere sugli altri, su un torto subito, su una verità da vendicare.
Al liceo aveva continuato a fare a pugni e a prenderli, ma mai aveva mentito sulla sua sessualità o su qualsiasi altro argomento.
Vedere i frutti di quell’atteggiamento non aveva fatto che consolidarlo.
Vedere le spillette rosa sul giubettino della madre, ritrovarsi la mattina a discutere animatamente sulla nuova legge newyorkese riguardo i matrimoni gay, sentire voce materna esitare su certi passi della Bibbia era quanto di più appagante potesse esserci.
Il padre aveva smesso di guardarlo con aria di rimprovero quando la fobia che si potesse trasformare in un ballerino con il tutù bianco era stata scongiurata e, anzi, il vederlo prendere i guantoni in mano gli aveva restituito dieci anni di vita.
Quando, poi, Diego, il suo secondo fratello, si era messo in mezzo ad una discussione nata nella mensa della scuola, difendendolo davanti a tutti, era stato il momento più bello della sua vita, sebbene si fossero ritrovati entrambi sospesi per due giorni.
Se Raul non fosse partito così presto, quando lui aveva appena sedici anni, avrebbe persino potuto iniziare ad amare un po’ di più la loro cittadina.
Ma Raul era lontano, era a Los Angeles, era negli USA e ciò era sufficiente perché l’insofferenza non si placasse.
L’ultimo anno di scuola l’aveva passato scalpitando nell’attesa che finisse, che la porta davanti a lui si aprisse, che finalmente si liberasse.
Purtroppo le sue rosee intenzioni non si erano realizzate. Tutt’altro.
Un mese prima dell’ultima campanella, il cuore del padre ebbe un arresto.
La corsa in ospedale fu del tutto vana, il colpo l’aveva stroncato sul posto.
Raul prese un periodo di pausa, ma il vuoto lasciato dal genitore non fu colmato neanche in parte.
Da che il percorso davanti a lui sembrava segnato, in quei momenti si mostrò interamente per ciò che era e una serie di bivi gli si visualizzarono davanti.
La madre non poteva vivere da sola senza neanche le rendite che gli venivano dal piccolo negozietto di loro proprietà, e da sola non poteva certamente occuparsene.
Pensare di assumere qualcuno era impensabile come anche vederlo e ricavarne tanto da permetterle di vivere tanti altri anni ancora. Uno dei figli avrebbe dovuto aiutarla.
Raul avrebbe dovuto lasciare la sua posizione, abbandonare il suo lavoro e tornarsene a casa.
O Diego avrebbe dovuto interrompere gli studi universitari appena intrapresi.
Lui poteva infischiarsene, far finta di niente e limitarsi a seguire ciò che erano da sempre i suoi piani.
Ma, in fondo, quella scelta non la prese mai in considerazione.
Strappando i biglietti per Los Angeles, si propose di restare lì.
A differenza dei fratelli che avevano qualcosa di reale in mano al quale rinunciare, a lui bastava mettere in un angolo i suoi sogni.
Almeno per un po’, si disse.
I giorni, però, come i fidanzati, si susseguivano con quotidianità e con quella velocità tipica del tempo quando vola.
A ventisette anni, aveva ormai un piccolo appartamento per sé, un paio di lavoretti stabili, una stanza piena di libri e nessun rimpianto nel cassetto, non poteva certo dirsi infelice.
Rivedere Raul ad aprile fu sicuramente una sorpresa.
Non c’erano feste particolari né aveva avvertito di un suo rientro a casa.
Il biglietto che però si era ritrovato in mano avevano mozzato il fiato. La mancanza di una prenotazione di ritorno aveva accelerato il battito.
“Ho avuto una nuova promozione, manderò a mamma molti più soldi di quanto puoi permetterti… vieni a Los Angeles con me.”
Quelle parole esplosero nella testa come se stessero esprimendo un concetto totalmente incomprensibile.
“Un mio amico ha una piccola azienda, può darti un lavoro. Niente di ché, ridipinge case, risistemano piccoli appartamenti…” L’abbraccio era partito spontaneo, il bisogno di sentire la fisicità di quel momento più importante del sentire i dettagli.
Los Angeles era un sogno.
Il caos, il traffico, i locali era di quanto più vivo e intenso avesse mai potuto immaginare.
L’appartamento del fratello così grande da perdersi, in uno dei palazzi più ricchi della città.
Dieci anni di attesa erano valsa la pena per vivere tutto quello.
I primi mesi furono l’euforia più totale.
Fu solo quando l’impresa ebbe l’appalto per un lavoro più importante e impegnativo che tutto si ridimensionò.
Occuparsi del grande studio al centro per rimodernarlo iniziò ad essere una sfida pesante, ma in fondo, non poté mai rammaricarsene, perché fu proprio così che l’incontrò.
Dave- perché sì, quando si prendeva cotte così intense per degli sconosciuti poi gli dava dei nomi immaginari- era sicuramente un uomo d’affari.
Ogni mattina si ritrovava a prendere l’ascensore con lui, che poi fossero loro assieme ad altre venti persone era un dettaglio.
Aveva uno sguardo scuro, nonostante l’intensità del verde di cui era colorato; le spalle larghe sempre dritte e fasciate da giacche di ottima sartoria, i colletti delle sue camice sembravano solo appoggiarglisi addosso, mai stringergli il collo.
L’erotismo che gli ispirava il suo perenne cambio di cravatta era smaltibile solo concentrandosi totalmente sul legno delle porte e nell’immaginare cose tanto idiote quanto diseccitanti.
Nella folla che perennemente li circondava non era manco mai riuscito a guardargli le mani, scoprire o no qualche legame sacro. Così il suo sogno lussurioso restava tale e la fantasia rimaneva l’afrodisiaco più grande.
Alle volte, poteva sentirseli addosso quegli occhi incastonati da quelle ciglia tanto nere, scorrere sul corpo, quasi invaderlo sotto la canottiera, ma puntualmente quando alzava il viso erano diretti altrove, testimoniando quanto quell’ossessione si stesse facendo forte e inaudita.
Sebbene in tutt’altro ambito non si potesse dire una persona poco sfrontata, il farsi avanti con quell’uomo sembrava una scelta impossibile.
Per fortuna, il percorso da seguire ancora una volta fu quello inaspettato.
Come ogni cosa giusta, nacque da un piccolo sbaglio.
Imprecando in spagnolo come gli capitava nei momenti di più intenso nervosismo, era dovuto ritornare all’appartamento dove lavoravano, in piena notte.
L’aver dimenticato il cellulare, portafogli, chiavi di casa tutto insieme era stata l’apoteosi di una giornata andata male.
Raul era fuori città, così era rimasto sul pianerottolo e in piena regola con la sua dannata testaccia se ne era accorto solo al ritorno della serata al pub.
Così si era ritrovato alle due di notte fuori alla villetta del capo a supplicarlo di dargli le chiavi del lavoro.
Alle luci notturne e senza l’immensa folla di lavoratori, quell’edificio appariva in tutta la sua dimensione, persino l’ascensore gli era sembrato totalmente diverso, nella sua grandezza, tanto che se ne era trovato per un attimo totalmente spiazzato.
Il moto di sorpresa, invece, quando le porte si aprirono fu di tutt’altro genere.
L’uomo alzò lo sguardo su di lui, accigliandosi appena, nel ritrovarsi inaspettatamente una fermata ad un altro piano.
Il guizzo che gli passò nello sguardo quando lo vide, Miguel, però, non seppe ancora definirlo.
“Scendi?”
Sentire per la prima volta quel timbro di voce lo fece subito scattare, entrando velocemente nel vano.
“Hm, sì certo.”
Puntare lo sguardo sulle porte ora sembrava una scelta obbligata, adesso che la sensazione sulla nuca non doveva essere solo un’impressione.
Che l’uomo alle sue spalle lo stesse fissando era abbastanza una certezza.
Poteva quasi immaginarsi il suo respiro sul collo da un momento all’altro e avvertire le dita scivolargli sotto la maglia, scoprirlo, toglierla e poi essere spinto contro la parete, dominato.
Pressante diventava il desiderio di liberare quel corpo sempre troppo vestito, scoprirne i contorni, la muscolatura, l’odore.
Sarebbe stato fin troppo facile ritrovarsi eccitato da un istante all’altro e sarebbe sicuramente successo se quella notte, invece, non avesse avuto voglia di divertirsi ancora con loro.
Con un brusco movimento, la macchina smise di scendere.
Istintivo, così, fu voltarsi verso l’altro, incrociare lo sguardo sorpreso e poi vederlo avvicinare ai comandi, provare a premere di nuovo lo zero e poi contattare il portiere, chiedergli spiegazioni.
“Scusi signor Coleman è la quarta volta che succede questo mese! Ora chiamo la manutenzione, ci perdoni, una mezz’oretta e dovrebbe essere tutto a posto.”
Coleman. Pareva questa l’unica informazione che il suo cervello aveva ritenuto doverosa registrare.
Dave Coleman, non suonava male.
Ora che il suono della sua voce sembrava essere diventato più familiare, quando gli rivolse direttamente la parola fu resettare ancora tutto.
“Sembra che ci tocchi aspettare.”
Gli stava davvero parlando?
Quella nuova informazione parve richiedere ancora più tempo per essere assimilata.
“Già…” si schiarì la voce per non sembrare un totale idiota, tentando una risata. “Beh, mal che vada sono già pronto per il lavoro.”
Lui rise e la tensione parve sciogliersi dai muscoli. “Ah, sì, possiamo anche vederla in questo modo.” Aveva detto lasciando a terra la borsa nera dal taglio professionale, sedendosi poi sul pavimento di moquette, schiena alla parete.
Imitarlo, sedersi dalla parte opposta dell’ascensore fu quasi un riflesso incondizionato.
“State lavorando per i nuovi uffici della banca? Quanto lavoro manca?”
“Ancora qualche settimana, credo…”
Il movimento delle mani dell’uomo gli fece però abbassare il tono di voce mentre si posavano sul nodo della cravatta, l’allentavano, sbottonavano almeno i primi due bottoni della camicia. Alzare quasi di scatto gli occhi e inchiodarli nei suoi, portò un altro tipo di stretta allo stomaco.
Che quasi ci fosse una sorta di divertimento nelle sue iridi, ora sembrava tangibile.
La consapevolezza di tutta quella situazione gli cadde all’istante addosso.
L’aver perso totalmente le briglie del gioco lo colpì totalmente.
L’ovvietà dello sguardo verde di fronte al suo l’infastidì e come il più potente antidoto parve far scomparire ogni aurea di attrazione intorno all’uomo.
La sensazione che guidava i suoi movimenti pareva studiata a tavolino, i gesti erano calcolati e sapevano quale corda toccare.
Non c’era seduzione, ma solo compiacimento.
Nessuno può resistermi, era il messaggio nell’aria scritta a caratteri cubitali.
Persino il “Capisco” di risposta suonò con una nuova nota, ora più chiara e limpida.
Ruffiana e agile come le zampe di un micio che si diverte a dar corda alla sua vittima di turno, che fosse un topino o una lucertola, per poi riacciuffarla.
“Già.” Disilluso il suo tono, ora.
Una canzone che amava da ragazzo cantava:

Eh! Me has disparado con tu mirada puesta sobre mi
Lo sabes me has embrujado
Mi corazón no para de latir
No se para ya y no se para ya

Pero después cuando nos hemos hablado
Y tu me has dicho esa tontería
Lo sabes, yo he temblado
Ha sido una ducha de agua fría

No quiero ya, yo no te quiero ya
Ahora lo sé que mi canción no es para ti

Era una falsa salida1


In quegli istanti fu capirne totalmente il senso.
Inclinare il viso, sorridere in modo sfrontato, adesso assumeva lo stesso sapore dell’alzarsi in battaglia, consapevolmente. “Lei lavora qui? Agli uffici ai piani superiori?”
Non avrebbe mai permesso a qualcuno di farlo sentire una pedina, figurarsi in quello che doveva essere un passo a due.
L’uomo annuì poggiandosi con gli avambracci alle ginocchia. “Esatto, sono un consulente finanziario.” Rise, piano. “Ma non darmi del Lei, mi fa sentire terribilmente vecchio.” Il tipico sorriso di chi vuole venderti qualcosa.
“Scusa… sai… si vede che sei un uomo importante e di una certa età.”
Se c’era qualcosa che odiava più dei convenevoli erano i falsi sorrisi.
L’espressione sul volto dell’uomo a quelle parole però parve tutt’altro che composta e mantenuta.
La sorpresa che gli attraversò le labbra e le sopracciglia completamente incontrollata.
“Ma dai... Ho solo trentasei anni.”
“Ah.” Ridere piano con una nota simile al sarcasmo (forte poi neanche tanto nei suoi ventinove anni) sembrava però rispondere alle regole dell’altro.
O meglio, sovvertirle.
Se cerchi un ammiratore, hai sbagliato persona.
Il messaggio voleva fosse subito chiaro. E, in fondo, parve arrivare con nitidezza.
Ora che le carte sembravano essere calate sul tavolo, le spalle dell’uomo si piegarono più rilassate, il modo in cui muoveva le mani, mentre passavano da un discorso all’altro era più fluido, meno impostato.
La risata mentre lo ascoltava parlare della bisnonna ancora viva in Messico, simile a una strega del vodoo, suonò naturale.
Non parlò molto di sé, Dave, ma il suo sguardo non si mosse un attimo dal ragazzo, attento, in ascolto.
Se l’interrompeva lo faceva per qualche battuta azzeccata, o qualche domanda che chiedeva una spiegazione maggiore.
“Tu scherzi! È stato il mio sogno per tutta l’infanzia. Chi da bambino non voleva diventare un cow boy?”
Passare dalla più seria discussione sul nucleare agli scarabocchi di quando aveva cinque anni era un passo facile.
“Ah, io non di certo.” Rispose il consulente, con un’esclamazione decisamente ironica.
“Beh, tu quando sei stato bambino, te lo ricordi? Tanto tempo fa…” Entrare in confidenza, per Miguel, colorare la frase dello stesso intercalare che avrebbe usato con uno dei più suoi cari amici, era ancora più naturale. “Qual era il tuo sogno?”
L’aria dell’ascensore apparve più densa in quell’istante.
Lo sguardo scuro dell’uomo più chiaro.
“In realtà…” Iniziò dopo qualche secondo, soppesando le parole, sentendone in bocca il sapore prima ancora di pronunciarle. “In realtà ho sempre vissuto tra i cow boy perciò tutto volevo fuorché diventare come loro. Volevo l’opposto.” Il movimento della gola più simile ad una pausa che una piccola risata. “Volevo un ufficio bellissimo, una vita perfetta e poi quando sarei diventato vecchio come i miei nonni mi sarei trasferito in Giappone.”
“In Giappone? Perché proprio in Giappone?”
Lo vide alzare il viso e chiudere gli occhi, ridere piano, ancora una volta più nel tentativo di prendere tempo che un vero senso di gioia.
“Un… motivo alquanto idiota, in effetti.”
“Dai… più stupido di me che mangio lucciole sperando di diventare un supereroe luminoso?”
Ancora ilarità, questa volta più spontanea. “Hem… no, effettivamente, penso fosse un tantino più intelligente.” Restò a guardare ancora un attimo in alto poi finalmente si decise ad abbassare il viso, ma senza cercare lo sguardo castano del messicano. “Hai presente, no, quello che si dice dell’ovest? Del Far west… qui da noi è come stare alla fine del mondo, il sole vi tramonta sempre…” una pausa.
“… In Giappone invece sorge.” Non avrebbe voluto concludere la frase, ma il sorriso che finalmente si schiuse sul volto dell’uomo fu decisamente piacevole.
“Già…” Rise ancora, di nuovo a voce bassa. “Sembrava la conclusione perfetta.”
Il minuto successivo passò in silenzio, senza che l’uno né l’altro facesse pensare ad un movimento.
Ancora una volta fu Dave a interromperlo, passandosi una mano sulla nuca.
“Comunque, una cazzata.”
“Hm… l’ufficio perfetto però ce l’hai… manca solo il Giappone.”
“Ma non credo di avere più voglia di andarci, la notte di Los Angeles sono certo valga di più.”
“Tipo una notte in ascensore? Ma tipo quanto sarà passato?”
“Quasi tre or…”
Il sussulto che la cabina fece nel ritornare a muoversi l’interruppe.
“Come non detto” finì, rimettendosi in piedi.
Riappropriarsi del silenzio nell’aria, ora fu un nuovo ridefinire i contorni.
Nello stesso modo in cui passano i secondi di transizione da un sogno troppo intenso alla realtà, la discesa dell’ascensore fu caratterizzata da quel senso di smarrimento.
L’aria fredda della notte sui gradoni dell’edificio neanche aiutò a rinsavire totalmente.
“Beh, Dave…”
Lo sguardo che l’altro gli rivolse, però, -finalmente- fece ripiombare tutta la sua fisicità all’istante.
“Come…?”
Figura di merda, l’unico pensiero nella mente.
Sentirlo ridere ancora una volta mischiò ancora le carte, come iniziare una nuova partita. “Mh… o hai sbagliato persona per tutta la serata o ti stai confondendo. Io mi chiamo Nicholas. Nicholas Coleman.”
Il messicano l’osservò qualche istante, senza riuscire a non sorridergli ancora una volta.
“Miguel Perez.”
In fondo, Miguel l’aveva sempre saputo.
Los Angeles era il suo sogno.

C’era stato un chiaro passaggio, per Nicholas, appena all’alba dell’adolescenza dove aveva capito.
Sin da quando era un bambino, si era sentito intrappolato nella vastità di orizzonti intorno al ranch della sua famiglia, nel nord della California. A quattro anni, il raccolto sembrava una cosa entusiasmante; a sei divertente, a otto era già diventato noioso; a dieci una tortura; a dodici asfissia.
Aveva, perciò, avuto anni e anni per elaborare un’ottima partita vincente, perché la sua vita doveva essere tutt’altro, doveva essere un successo e non una prigione senza confini.
L’infanzia persa a leggere qualsiasi cosa, nella noia più totale tra galline e cavalli, aveva dato un’ottima base sulla quale partire.
Il College, poi, era stato un campo di battaglia.
Avrebbe sempre ringraziato il cielo che almeno i suoi genitori potessero ripagarlo di quel supplizio con l’opportunità di frequentare un buon istituto -non d’eccellenza, ma aveva saputo accontentarsi-.
Sapeva da anni che quello sarebbe stato il suo banco di prova.
Avrebbe capito lì di che pasta fosse fatto, se fosse realmente all’altezza delle proprie aspettative. Se gli anni passati a curare l’aspetto, il modo di parlare, l’interessarsi alla politica quanto ai più banali gossip hollywoodiani, fossero serviti si sarebbe visto lì, nella sua prima vera occasione con il mondo.
Un mondo vero, lontano da casa.
Come il più severo dei giudici, aveva condannato ogni sbaglio, appuntato ogni sbavatura, ritoccato le sfumature, ma, in tutta sincerità, non poteva che dirsi orgoglioso di ciò che era.
La sfida contro la società era stata vinta con facilità.
La laurea conquistata con tranquillità, in anticipo sui tempi, le amicizie giuste intascate con naturalezza, le lodi dei professori mostrate con fierezza.
Non aveva perso neanche l’estate a casa, aveva un piano da dover mandare avanti, degli obiettivi da raggiungere, una scaletta da rispettare.
Los Angeles arrivò subito dopo la cerimonia della laurea.
Pochi soldi in tasca, troppe idee chiare in testa.
I primi anni di College gli erano serviti ad individuare parte delle comparse.
Sapeva che l’Università a Sacramento gli avrebbe fornito poche e mirate occasioni e lui le aveva colte. Tutte.
Non c’era stata un’amicizia iniziata per piacere personale sebbene dall’esterno mai si sarebbe detto. In modo totalmente naturale riusciva a risultare l’amico perfetto per chiunque.
Appena qualche anno dopo, si trovava nei party più esclusivi della città, accanto ai ricchi figli di avvocati, medici, imprenditori, attori.
Le persone amavano la sua presenza, il modo in cui riusciva a mettere a proprio agio chiunque e l’inflessione del suo sorriso quando prendeva in giro con una battuta ben calibrata il buffone di turno.
La disponibilità inteneriva le atmosfere, la gentilezza corteggiava le ragazze, e tutto in contrasto con lo sguardo verde perennemente acceso da una nota accattivante.
Per un po’ si era goduto il gioco della perdizione, ma nessun svago l’interessava più di tanto.
A ventitre anni, l’ansia della scalata premeva in modo vitale. Ogni gradino più su avrebbe allungando la distanza tra sé e le proprie origini.
Così, da abile cacciatore si era messo in campo per la svolta più importante, quella decisiva.
E si era subito reso conto di una variante non calcolata.
Aveva sempre saputo che l’unico ostacolo alla sua riuscita potesse essere sé stesso.
L’unico che poteva tradirlo era il suo corpo.
I campanelli d’allarme c’era tutti, ma lui aveva fatto finta di non sentirli.
Li aveva ignorati in nome di qualcosa di più importante, di più vitale.
Doveva essere la mente a comandare. Doveva convincersene. Doveva esserne così persuaso che qualsiasi istinto primordiale non sarebbe diventato un ostacolo.
La Natura, però, parve prenderla come un’offesa personale. Anche questo fu chiaro al College.
Carol era una bella ragazza. Il padre era un importante dirigente di una banca di San Francisco e ciò le conferiva un fascino maggiore.
Aveva capelli neri e lunghi, forme pronunciate che profumavano dell’essenza stessa della femminilità.
Le labbra carnose e morbide sapevano curvarsi in sorrisi dolci e poi maliziosi, le dita lunghe sapevano preludere a determinati piaceri.
Corteggiarla era stata la sua prima vera esperienza. Una ragazza richiedeva attenzioni, tempo, testa, lo sapeva e aveva sempre rimandato, ora era arrivato il momento di passare all’azione.
Le parole erano venute con facilità, i gesti pareva conoscerli da sempre, ma nessun attimo l’aveva riempito di soddisfazione.
In quei momenti, vecchie paure tornavano ad affiorare.
La semplicità con le quali si era trovato nella sua stanza avrebbe dovuto essere già una vittoria, ma non ne aveva il sapore.
I baci avrebbero dovuto provocare qualcosa di diverso che la tenerezza, le mani altro dalla curiosità.
Toglierle i vestiti, scoprirle i seni, non avrebbe dovuto intimorire.
Il suo corpo stava cedendo e la mente perdeva le redini.
La sirena rossa ormai riempiva gli occhi di immagini spaventose.
Sulla bellezza del suo sogno era comparsa una crepa, che senza pietà passava da una parte all’altra iniziando a distruggere tutto.
“N- non ti piace?”
La voce della ragazza, affannata, mentre la sua erezione non si decideva a rimanere tale.
La risposta secca, infastidita, affermativa. Il movimento quasi violento nel voltarla pancia sul materasso, il preservativo e la spinta furono bisogni urgenti.
Chiudere gli occhi e cedere, l’unica soluzione. Non avrebbe perso, se quello doveva essere il compromesso, l’avrebbe accettato.
Afferrò con le mani la testiera del letto e iniziò a muovere i fianchi. Evitare di toccarla, era necessario.
Non poteva permettere a quelle curve morbide di distruggere la sua fantasia. I gemiti fin troppo femminili erano già di per sé una distrazione; gli occhi si strinsero di più e l’amplesso arrivò.
La vittoria con esso.
Scivolarle poi di fianco, ascoltare il tono entusiasta, la sua voglia di rifarlo, fece scomparire le crepe quel tanto che bastava, per dirsi un quadro integro ad uno sguardo non vigile.
Le compagne a letto cambiavano, si succedevano senza intoppi, la sua fama come amante cresceva con il loro numero.
Poco importavano a quel punto i veri desideri della carne. Li aveva assuefatti, ingannati, truccati. Restava la mente a comandare.
Se diceva donna, era con una donna che avrebbe avuto il suo orgasmo.
Se il corpo ripeteva uomo, bastava chiudere gli occhi e immaginare l’ennesimo ragazzo sotto di sé.
Ciò era bastato fino al matrimonio, fino alla nascita della bambina, fino a vederla camminare.
Il tempo poi aveva iniziato a far pesare ogni gesto, logorando ogni respiro.
I ragazzi, allora, avevano assunto un nuovo valore, un sapore aggiunto di trasgressione.
I viaggi continui per il lavoro l’avevano portato in altre grandi metropoli, altre città che nulla chiedevano e tutto offrivano.
Lì il peso dell’oro all’anulare perdeva ogni consistenza con una facilità inverosimile.
Se la presenza fisica di Eleonor fino ad allora aveva sempre alimentato i rimorsi, lontano dalla sua aurea il campo appariva totalmente sgombro.
Ragazzi giovani, facili, belli come statue greche, accessibili come le più docili puttane, avevano placato la sete che il corpo urlava.
Dominarli, possederli, violarli aveva finalmente dato consistenza alle sue fantasie.
“Non credevo che dopo aver avuto una figlia avresti continuato con questa foga, Nick.” Il commento una volta della moglie.
“Perché non avrei dovuto?” La risposta pronta, lì a dissimulare la nuova realtà che aveva assunto la sua fantasia.
Il tempo gli aveva concesso di soddisfare anche la sua parte più fisica, istintiva, viscerale.
Sembrava che tutto ciò che chiedesse gli fosse offerto.
La studio, la moglie, i figli, il conto in banca, la barca a vela, l’auto sportiva, la villa per le vacanze, infine, gli amanti.
C’era tutto.
Ma più si accumulavano oggetti più se ne perdeva il senso.
L’apatia che inizialmente caratterizzava le sue ore più tarde, si espandeva alla mattina, lentamente a quei pranzi sempre uguali, gli stessi uomini, gli stessi discorsi, lo stesso valore monetario.
Inizialmente neanche l’arrivo del nuovo operaio gli aveva dato chissà che brivido.
Neppure la sfida di un’avventura in casa, l’aveva risvegliato.
Il ragazzo l’aveva notato dal primo giorno. In effetti, era difficile che passasse inosservato.
La pelle scura parlava già delle origini sicuramente messicane.
I capelli, gli occhi rasentavano il nero senza mai raggiungerlo.
Le ciglia, le sopracciglia conferivano al suo viso quella spontaneità tipica di chi aveva vissuto la vita senza doverla nascondere.
Gli sguardi che gli rivolgeva dicevano tutto dei suoi gusti.
Li aveva avvertiti dalla prima volta, ma ovviamente non c’era da meravigliarsene. Uomo o donna non avevano molte alternative all’essere attratti da lui.
La sorpresa di ritrovarlo quella notte all’apertura delle porte era, però, stato come sterzare in una curva inaspettata e non segnalata.
Togliersi la fede, alla mano nella tasca, fu un atto totalmente istintivo.
L’apatia del buio era stata attraversata da una scossa e vederlo piantarglisi davanti, rivolgergli solo la schiena, nel tentativo di non dargli alcuna confidenza aveva risvegliato un certo piacere della conquista.
Osservare la lancetta scendere vertiginosamente, fece accelerare i battiti e da un momento all’altro avrebbe premuto il tasto rosso se l’ascensore non ci avesse pensato da sola a bloccarsi.
Il sincronismo con il quale il mondo rispondeva ai suoi desideri sembrava aver raggiunto l’apice.
Poche chiacchiere, doveva puntare ai gesti, i movimenti delle mani, del mento. Il messicano avrebbe resistito poco.
Amava che fossero gli altri a fare il primo passo nel gioco, o meglio che cedessero al proprio fascino e gli consegnassero docilmente ogni comando. Negli occhi del ragazzo c’era già ogni intenzione di sottomettersi, di arrendersi.
Poteva già assaporare le sue labbra, la sua pelle e tutto ciò che ne sarebbe venuto, quando nel giro di pochi attimi gli stessi occhi, di fronte a lui, avevano assunto tutt’altra espressione.
Lo sguardo del ragazzo si barricò dietro un muro di indifferenza, le parole si colorarono di un tono di beffa; l’atteggiamento fu di chi gli poneva contro a pieno petto, con sfrontatezza.
La tensione erotica sparì in pochi istanti, la contrazione dei muscoli affilati per la caccia si rilassarono.
La curva di quella strada gli stava riservando altre svolte.
Il tempo sembrava essersi bloccato, il rumore del tempo sommerso da fiumi di parole.
Miguel aveva una risata sempre spontanea.
Qualsiasi fosse l’argomento, le labbra si schiudevano quasi prima che la frase si concludesse; le risposte ironiche non miravano ad alcun doppio senso; raccontava di qualsiasi suo ricordo senza alcun problema, alcuna inflessione di vergogna.
Dopo tre ore di quell’influsso, aveva persino riesumato quello stupido sogno sul Giappone.
Il Giappone.
Il paese del sol levante.
Negli ultimi mesi ci pensava spesso.
Abbandonare tutto e ricominciare da zero.
Un desiderio che non aveva il coraggio di ammettere, in bilico tra paura che si potesse davvero realizzare e il contrario.
Non era tornato a casa, quella notte.
Le ruote della Lamborghini avevano continuato a mangiare asfalto, divorando l’alba e lasciando un’ombra sempre più lunga dietro di sé.
Nei giorni successivi, il ricordo di quelle poche ore si ripeteva in una visione sadica nella sua mente.
Il modo in cui il ragazzo muoveva le mani o le spalle, inquadrature su particolari, come i capelli alla nuca o le caviglie incrociate, continuavano a girare nei suoi occhi.
Ritrovare quello sguardo, di nuovo, la mattina dopo e quella successiva, lasciava che tutto vivesse ancora in modo totalmente nitido.
Fu quasi senza sapere come che si ritrovò -manco una settimana dopo- sulla soglia del grattacielo “casualmente” all’orario in cui vedeva sempre il messicano uscire.
Quasi lo fece cadere, nello scontro delle spalle, e velocemente gli afferrò il braccio, tenendolo ancora in piedi.
Sentirlo ridere, diede nuova forza ai ricordi.
“Scusa, non ti avevo visto.” La scusa immediata. Poche battute, poi la proposta che gli premeva fare.
“Ti va di cenare con me?”
Lo sguardo ramato si schiuse per un attimo sorpreso, prima che le labbra tornassero a curvarsi in modo sincero.
“Perché no…” la risposta. “Basta che non andiamo in qualche ristorante nel quale non saprei neanche leggere il menù.”
“Non ti potrei portare in uno di quei ristoranti, mia moglie lo scoprirebbe subito.” La verità che non disse.
“Figurati, conosco un posto poco fuori città dove persino io non ho problemi a leggere il menù.” La bugia pronunciata.
Il messicano annuì, acconsentendo. Nessuna ombra di dubbio in nessun muscolo del suo volto.
Fu così che iniziò.
Miguel in poche settimane divenne droga dei sensi.
Droga che alimentava un malessere fatto di vigliaccheria, colpa, paura.
Droga che restituiva la pace, la tranquillità, la serenità.
Poche ore con lui, cene in posti quasi sempre sperduti, potevano far dimenticare casa, studio, lavoro.
Allo stesso modo, con la stessa forza, dava vigore al disgusto per quella persona che nascondeva la fede, lasciandola in macchina o in ufficio, o abbassava le cornici contro la scrivania per nascondere agli occhi ciò che era già inciso nella mente.
Che Eleonor non meritasse tutto quello ne era già consapevole quando il sesso era una fuga animale, ora che non c’era da nascondere un rapporto fisico, il peccato sembrava ancora più grande.
Il solo immaginarsi -nei momenti più inoltrati della notte- la reazione che avrebbe potuto avere il messicano alla verità, oscurava ogni pensiero di confessione.
Il solo fatto che il ventisettenne agisse sempre senza alcun schema, alcun doppio senso, alcuna finalità, ne faceva il suo diretto opposto.
Tutti gli spigoli che negli anni, lui aveva lavorato per smussare o dissimulare, Miguel li mostrava con fierezza, naturalezza.
Anni interi passati a sopprimere ogni attrazione maschile ora bruciavano su ogni centimetro del corpo.
L’irascibilità a lavoro divenne la valvola di sfogo.
Per quanto in un primo periodo poteva dirsi attratto da lui in una sfera totalmente emotiva, ben presto non poté nascondere la chimica totalmente fisica che avvertiva sulla pelle in sua presenza.
Il modo in cui le stoffe gli si increspavano addosso, alimentavano la voglia di strapparle.
La moda dei jeans, bassi sui fianchi, poco lasciava alla fantasia.
Senza neanche che se ne rendesse conto erano passati mesi.
L’insofferenza agli angoli vivi dello studio si era affinata, ogni sentimento che quel rapporto gli provocava nella luce e nell’ombra si era amplificato in maniera netta. Lui varcava l’una e l’altra parte solo in base al momento, alla vicinanza o no del ragazzo, della moglie o dei figli.
Per la prima volta nella sua vita, si ritrovò senza alcuna coordinata.
Non aveva più in mano il comando, la strada che stava percorrendo non era quella che si era tracciato da sempre, ma un percorso avvolto alla nebbia. I passi che lo facevano avanzare non avevano più quella sicurezza conscia che l’avevano sempre caratterizzato quanto una pallida intraprendenza folle e incosciente.
Evitare di toccare in ogni modo il messicano, era come chiudersi in un’anticamera, fissare la porta davanti a sé e continuare a domandarsi se al di là ci fosse un Inferno o un Paradiso; temere e sperare entrambe le risposte.
Che si stesse avvicinando il punto di non ritorno, comunque, era alquanto palese.
Quella volta l’avviso c’era. Si era presentato sotto forma di invito, e come ogni domanda era una scelta.
Alla lista delle passioni in comuni si aggiungeva l’oceano. Un oceano sul quale volare con uno scafo leggero.
L’amore e la qualifica per guidare una barca a vela ancora una cosa che li accomunava.
Lì era scattato il momento, nell’istante stesso in cui Miguel aveva abbassato lo sguardo sul bicchiere di cognac e, solo dopo una leggera risata che era più un prendere coraggio che altro, aveva riportato gli occhi su di lui.
“Mio fratello ha una barca a vela a Marina del Rey…” Lì per lì non riuscì a fare nessuna associazione. “Ti va di andarci il week- end?”
La trappola.
Tentare di negare a sé stesso che quelle parole non gli rimasero impresse nelle orecchie per tutta la serata fu totalmente inutile.
La risposta vaga e totalmente priva di coraggio sul momento era stata “Devo vedere se posso con il lavoro”, e mai aveva ringraziato la sua capacità di non perder parola come allora, ma nient’altro fu che un palliativo.
Che si trovasse ad uno svincolo era palese. Ora doveva scegliere da che parte stare.
Ispirando a fondo, chiudendo gli occhi e allungando il passo senza il coraggio di guardare la direzione, si ritrovò il venerdì mattina a mettere in valigia le scarpe bianche da barca.
L’odore del mare, dopo qualche ora, riempì i polmoni, cancellando ogni altro pensiero.
Liberarsi della giacca che opprimeva le spalle, del cappio- cravatta, dei polsini simili a catene fu come togliersi vent’anni di vita.
La luce del sole, sulla barca, illuminò tutto il giorno. Illuminò ogni istante e quando lasciò il tempo alla notte, non si arrese.
Nessun cielo poteva dirsi più diverso da quello di Los Angeles.
Nella metropoli le uniche stelle visibili si scoprivano aerei in movimento, alla fonda nell’oceano, invece, la via lattea sembrava voler far luce quanto l’ora di punta.
Stesi sulla coperta della barca, sguardo puntato in cielo, come il dito di Miguel che disegnava nel cielo eccentriche costellazioni, non si poteva immaginare un luogo migliore.
Quando tu guarderai il cielo, la notte, visto che io abiterò in una di esse, visto che io riderò in una di esse, allora sarà per te come se tutte le stelle ridessero. Tu avrai, tu solo, delle stelle che sanno ridere.
Quando aveva letto quel frase, sul finale del piccolo e biondo principe di Antoine de Saint- Exupèry, Judith aveva storto il naso, Matt l’aveva guardando con quegli occhi immensi che solo a quattro anni si potevano ancora possedere.
In quel momento, con la risata calda del ragazzo accanto a sé, ad un soffio dall’orecchio, sembrava davvero che l’intero mondo celeste stesse ridendo.
“Dai, non è difficile” continuava a ripetere ogni qualvolta facesse finta di non notare un disegno. “Segui il dito… l’hai vista?”
Spiegargli che l’astronomia era stata una delle materie che aveva studiato con più zelo, non era neanche calcolabile.
Restare in silenzio e avvertire solo il suo respiro a pochi istanti di distanza, poi giusto più in sottofondo le onde cullare lo scafo, era aver trovato la pace.
Fu l’attimo in cui sentì le dita del ragazzo sfiorare il dorso della sua mano, che la realtà iniziò piano ad assumere dei contorni, a ritornare fisica e vera.
Il corpo accanto a suo si concretizzava nel peso stesso che aveva sui cuscini; sullo sfondo nero che era il mare intorno a loro, la linea del profilo risultava netta; la pelle scura si colorava di più sfumature alle fioche luci della barca.
Con un movimento leggero lasciò scivolare le dita tra quelle del più piccolo, quando lui stesso si voltò a guardarlo.
Se avesse dovuto descrivere la bellezza del suo viso, o di quell’istante, oppure, semplicemente, il modo in cui il cuore sembrava essersi ricordato di esistere, ogni parola sarebbe sembrata vana o piccola.
Qualsiasi parola sarebbe stata troppo piccola per contenere tutto quell’istante.
Così credeva prima, almeno. Perché subito, Miguel volle smentirlo, esprimendo tutto ciò che lui sentiva di provare con la purezza che gli era naturale.
“Credo che mi sto innamorando di te.”
E fu come un sussurro, ma mille volte più potente.
Fu come un’esplosione, ma non mosse nulla.
Fu come capire e dimenticare tutto.
Anch’io. Le parole che all’istante bruciarono sulla lingua.
Poggiargli la mano libera sulla nuca e avvicinargli il viso, attirarlo, coinvolgerlo nel bacio più intenso della sua vita, la reazione vera.
E si sentì senza nessuna oppressione, nessun rancore, nessuna fune stretta ai polsi o al collo o al cuore.
Non c’era colpa nei baci, non c’era odio nel lasciarsi toccare, non c’era gioco nell’attrazione.
Senza che riuscisse a definire i passaggi, erano sottocoperta nel letto più grande.
La maggior parte dei vestiti buttati per terra.
Non aveva mai desiderato una persona con quel trasporto, con quella presenza mentale più che fisica.
La Mente non aveva mai desiderato nessuno in quel modo.
Il bisogno di guardarlo, di incrociare lo sguardo, bruciava l’attesa.
Con un desiderio urgente, tirò a terra anche gli ultimi indumenti.
Spezzò il fiato ritrovarsi finalmente il ragazzo nudo sotto di sé. Un misto di contemplazione e foga era centrifugato nel suo stomaco. Le mani seguivano la passione, le labbra, invece, lente i contorni del suo corpo.
Sul petto, gli addominali poi ancora giù fino alla pelle più sensibile.
Osservare il suo viso, dal basso, perdersi nel piacere, le sopracciglia stringersi ai brividi, il respiro farsi sempre più caldo, così come la pelle che sembrava rilasciare anni e anni di sole, eccitava ogni parte dell’anima.
Dare piacere, non era qualcosa che gli era mai importato con un uomo, in quei momenti sembrava l’unico scopo.
Ritrovarsi schiena al materasso, osservare il ragazzo prendere dalla borsa preservativi e lubrificante fece seccare totalmente la gola.
Deglutendo più volte e prendendoglieli da mano, lo portò di nuovo sotto di sé, ridendo contro il suo collo, mordendolo impaziente.
“Per niente programmato, eh?” la battuta che Miguel ancora una volta gli rubò.
“Per niente.” Il massimo della capacità intellettuale, mentre la mano scivolava tra le sue gambe, facendogli perdere ogni coordinamento mentale.
Se qualche briciola di razionalità, fosse stata ancora presente, qualche istante dopo, fu bruciata totalmente.
Osservare la curva che la schiena del messicano disegnò sotto il suo corpo, alla prima spinta fece saltare ogni collegamento con la testa.
Fu ritrovarsi dipendente da quelle labbra o quella pelle, fu scoprire che le mani si preoccupavano principalmente di alimentare quei gemiti di piacere, che portò i movimenti dei fianchi a farsi più veloci, più forti, più intensi.
Non c’era una parola nella sua mente, non c’era un nome che non fosse il suo sulle labbra, non c’era il rumore delle lancette del tempo, in quella cabina dal soffitto fin troppo basso.
La sola consapevolezza delle dita sporche del piacere del ragazzo che stava possedendo, fu la ragione dell’orgasmo più intenso che avesse mai vissuto.
Di botto ogni cosa ritornò ad avere un colore, una posizione, una consistenza.
L’aria si condensò negli affanni dell’altro, accanto a lui, nella sfumatura più calda che aveva assunto il suo viso, nel contrasto con i denti completamente bianchi scoperti dal sorriso.
Che tre giorni potessero passare tanto velocemente, non era previsto.
Non era previsto la dipendenza totalmente fisica che assunse lo stargli accanto.
Che ci fosse tutta una realtà, un intero mondo, lasciato sulle coste dell’America fu totalmente rimosso.
Tutto ritornò solo quando la costa fece capolinea all’orizzonte e il peso della verità piombò di nuovo sulle spalle.
La porta si era aperta mostrando il suo più grande sogno, mostrandogli tutte le tinte e con uno sfoggio di forza gli aveva fatto capire “cosa sarebbe stato”.
Anch’io ti amo. Le parole che gli erano restate in gola anche nel ritornare a casa.
Anch’io ti amo. Le parole che aveva urlato spingendo l’acceleratore dell’auto sportiva.
Anch’io ti amo. La risposta sussurrata alla sposa perfetta, che in intimo di pizzo nero l’aveva accolto in casa senza bimbi, abilmente portati dei nonni.

“Miguel… mi stai ascoltando?”
La voce di Raul suonò tra il divertito e l’esasperato nel tentare di riportare la sua attenzione presente.
Lui si limitò a ridere, spalmando il burro di arachidi sulla fetta di pane confezionato.
“Scusa, stavo pensando…”
“A Nicholas.” Concluse il fratello maggiore. “Andate in barca anche questo week- end?”
“No. Lui deve lavorare. Ci vediamo stasera.” Fece una pausa, ma Raul aveva capito perfettamente la prossima domanda. “Mi lasci casa libera, vero?” Concluse poi con il migliore dei sorrisi.
“Dio, non capisco perché devo sparire io ogni volta e non possiate andare da lui.”
“Sta ristrutturando casa, lo sai.”
“Beh, è quasi un anno che ristrutturano!” Il tono era ironico ma Miguel sapeva che era sono un gioco, il fingersi esasperato.
“Farò la cucina per un mese.” La proposta fasulla.
“Si, ci sto credendo.” Rise infine il più grande. “La barca la prendo io, questo week- end, allora.”
“Ci esci con una ragazza?” la domanda degna di un buon fratello minore impiccione.
“No.”
“Allora con un ragazzo?”
“Dio, Miguel.” Raul rise. “La barca a vela non è un motel, sai? La sua bellezza sta nel darti l’occasione di lasciare tutti a terra.”
“Ah…” Qualche secondo di silenzio, quel che bastava per non abbandonare il discorso. “Quindi ci vai per scappare da qualcuno?”
“Buona giornata, fratellino.” La risposta divertita ma perentoria, prima del rumore secco della porta.
Raul non amava parlare di sé, l’aveva sempre saputo.
Cercare di cavare qualche informazione sulla sua vita, era come tentar di risolvere un rebus.
Ogni qualvolta che la loro madre gli domandava se Raul avesse una fidanzata, lui si limitava a ridere e risponderle “Non lo so, forse un fidanzato”.
Poteva scherzarci, ma in altri momenti, non sapere neanche che tipo di persona preferisse il fratello feriva profondamente.
Aveva dieci anni quando aveva sentito per la prima volta la parola “Gay”.
Era stato Diego a urlarlo contro Raul, in una discussione di cui aveva dimenticato l’origine e, poi, anche il seguito.
L’unica cosa che aveva ricordato era quella parola.
“Cosa vuol dire gay?” aveva chiesto al maggiore dei tre, quando il secondo con i suoi modi plateali –ancora più teatrali a tredici anni- se ne era andato.
“E’ un uomo che ama un uomo.” Si era limitato a rispondere Raul. C’erano momenti in cui riusciva a ri- sentirlo, il tono con il quale aveva pronunciato quella frase. Aveva cercato di ricordarlo quanto più possibile, per magari scoprirvi un giorno un’inflessione nella gola, ma dopo tanti anni aveva paura di averlo troppo deformato nella mente.
Ricordava però che aveva sentito il bisogno di piangere, in quel momento.
“Ed è una cosa brutta?”
Raul doveva essersene accorto, perché poi i suoi tratti si erano addolciti. Si era seduto accanto a lui, prendendo uno dei pennarelli sparsi sul tavolo e continuato a colorare con lui come se nulla fosse successo.
“No, Miguel. Non è né bello né brutto. È come essere mancini o destri per disegnare, l’importante sono i colori.”
Lui non aveva più commentato, ma il disegno di quel giorno era ancora conservato nel suo cassetto.
Ripensarlo e stare qualche minuto a guardarlo, era sempre d’obbligo quando quel ricordo tornava alla mente. Tornava qualche minuto, il tempo giusto e poi spariva, lasciava spazio alla giornata, al lavoro, alla sera.
E, quel giorno, lasciò spazio a una cena bruciata, ad un cinese ordinato di fretta e a troppe bottiglie di alcool sparse poi sul pavimento.
Fu il tempo del sesso sul pavimento, poi, e sul divano e ancora, sul letto.
“Quando hai capito di essere gay?” la domanda quando, ridendo per l’ennesimo brindisi, si era ritrovato a posare lo sguardo sul foglio piegato sul comodino.
Nicholas era restato qualche attimo fermo, poi con un movimento più meccanico si era alzato a sedere prendendo dal pantalone buttato poco lontano una sigaretta.
Aveva uno strano modo di reagire quando non voleva risponderti.
Potevi leggere un’anticipazione nella contrazione delle spalle, da quella già sapevi se avrebbe parlato o no.
Poi si muoveva, come a volerti distrarre con il corpo, affascinava la tua mente quel poco che bastava per cambiare discorso.
In casi rari, fumava. Restava in silenzio quel tanto che serviva per farti esclamare un “capito l’antifona” quando l’argomento non ti interessava più di tanto.
Quando, come in quel momento, il silenzio era solo attesa, biascicava qualche risposta vaga come “Non lo so di preciso”. Ma che Miguel non amasse sempre arrendersi, ormai era chiaro persino a lui.
Si portò, allora, anche lui a sedersi, baciandogli piano la nuca, carezzandola con una leggera risata. “Davvero? Non c’è stato un momento? Una persona? O l’hai sempre saputo?”
Ancora il muro di silenzio tra di loro.
“Nicholas…?” ancora una picconata.
La musica dello stereo riempiva l’aria.
“Penso di averlo sempre saputo.” Il tono dell’uomo quasi più basso del volume delle casse.
La mancanza di note nella voce fu quasi una tentazione a chiudere il discorso, ma la paura di restare all’oscuro fu più forte. La matrice più forte di lui odiava restare fuori dalla vita delle persone che amava.
O non conoscerle abbastanza.
“I tuoi come l’hanno presa?”
“Loro… non lo sanno.” La cenere cadde nella curva perfetta del posacenere d’alto design, di cui Raul amava riempire l’appartamento.
Fosse stato un altro momento avrebbe sussultato, sgranato gli occhi, si sarebbe indignato e alzato la voce, avrebbe iniziato a declinare i diritti riconosciuti e mancati degli omosessuali, avrebbe urlato le battaglie che aveva vinto e perso nella sua vita, ma lì, la voce mancò completamente.
Per la prima volta, Nicholas stava parlando di sé. Lo stava facendo con un tono basso e un colore insicuro che non gli si addiceva, un movimento brusco avrebbe voluto dire chiudere tutto sicuramente subito.
Probabilmente, poi, quel discorso era solo dovuto alla libertà che l’alcool gli permetteva, ma, ad ogni modo, non era un momento da perdere.
“Tu...” esitò. “Pensi che loro la prenderebbero male?”
Le labbra del consulente si schiusero quel poco che bastava per poggiarvi il filtro arancione, lasciando poi nell’aria quel fumo grigio.
“No. Penso che… non cambierebbe poi tanto.”
“Allora perché…?”
“Quando dici delle cose alle persone a cui tieni, significa renderle vere, sai?”
Scostarsi da lui quel poco che bastava per guardarlo in faccia, fu un movimento istintivo.
“Che stai dicendo?” il tono che sentì fu più duro di quanto non avesse voluto.
Nicholas abbassò lo sguardo premendo la sigaretta sulla ceramica rossa, osservandola schiacciarsi piano.
“Finora ho sempre cercato di non esserlo.” Rispose, posando di nuovo il posacenere. Rise, tornando a stendersi sul materasso. “Di non essere gay.” Con la punta delle dita iniziò a seguire le ossa sporgenti che la sua schiena pronunciavano nell’aria.
“Ho sempre cercato…” riprese prima che Miguel potesse prendere a parlare. “Di ignorarlo, di fare finta di niente.”
Tornò solo dopo un po’ a cercare il suo sguardo, abbozzando un sorriso. “Non avevo trovato qualcuno per cui valesse la pena farlo.”
Avrebbe voluto continuare il discorso, ma quegli occhi verdi glielo impedirono.
Avrebbe voluto chiedergli cosa avesse fatto allora, se avesse avuto donne, quante, ma restò in silenzio.
Avrebbe voluto abbattere ogni sua idea, ma la mente lasciò spazio al cuore e tacque.
Avrebbe voluto essere offeso, come un combattente davanti ad un ignavo, ma la curva di quelle labbra fece svanire tutto.
Non aveva mai percepito l’uomo in modo così sincero, non l’aveva mai visto più indifeso, più fedele; sentì che in quel momento gli avrebbe perdonato ogni cosa avesse detto.
C’era un bisogno di abbracciarlo ora e baciarlo.
Baciare una tempia, gli occhi, gli zigomi marcati poi le labbra.
Tenere lo sguardo nel suo, rendersi conto di ogni colore che conteneva, concretizzarlo realmente e poi chiudere le palpebre, scivolare con la lingua a cercare la sua, lasciarsi abbracciare.
C’era il bisogno sentimentale di urlare alla notte l’amore e il desiderio fisico di dargli una forma.
Con Nicholas, razionalità e pazzia sembravano ogni volta confondersi.
Non aveva permesso a nessuno di entrargli così tanto nell’anima.
Lui l’aveva fatto con tutto quello che aveva detto e con i troppi silenzi che lo caratterizzavano.
Era stato un lento scoprirsi e, per lui, un lento affondare.
Si ritrovava sempre fragile quando, solo, ripensava al loro rapporto.
Avevano passato mesi solo a parlare, solo standosi vicino e c’erano davvero stati momenti in cui aveva dubitato dell’omosessualità del consulente.
C’era stata la notte in barca, la prima. Seguita da una scadenza quasi regolare, poi.
Da allora era passato più di un anno e ancora si ritrovava sperduto davanti al sentimento che provava.
Guardare Nicholas era come cercare di capire il buio, allo stesso modo rassicurava e spaventava.
Potevi avere il terrore che nascondesse qualcosa ai tuoi occhi, altre volte ti trasmetteva solo un senso di pace e sicurezza.
Nel primo caso, si ritrovava a domandarsi cosa gli avrebbe perdonato.
Se davvero nascondeva qualcosa o qualcuno, quanto ne avrebbe sofferto?
Si chiedeva se l’amore non avrebbe offuscato anche quello, se poi la paura sarebbe rimasta per sempre.
Il dubbio, poi, l’aveva insinuato un compagno di lavoro, quando scherzando sull’ennesimo week- end di lavoro del moro, aveva esclamato “Ah, ma forse ha l’amante.”
Lui ci aveva riso, aveva risposto “Ora si spiegano tante cose.”
La frase era venuta naturale, poi il suo peso era piombato in altri momenti, in quelli veri.
Con l’avvicinarsi dell’estate, l’ansia parve farsi più forte.
L’anno precedente, per tutto il mese di agosto lui era dovuto tornare in Messico per permettere a Diego una vacanza senza la preoccupazione della madre sola ed ogni programma era saltato.
Nonostante l’invito, Nicholas non l’aveva raggiunto.
La pelle scura fu spiegata come l’abbronzatura di qualche settimana in barca, nelle pause dal lavoro.
Miguel non aveva mai conosciuto qualcuno che lavorasse tanto.
Fu così che si ritrovarono una sera di luglio, ancora una volta sull’oceano; la volta celeste sempre chiara su di loro, quando decise che l’argomento doveva essere messo in mezzo.
“Andiamo in Giappone.” Voleva essere una domanda, il tono uscì invece perentorio.
Nicholas rise portando lo sguardo su di lui. “Cosa?” domandò infatti chiedendo spiegazioni.
Si morse le labbra e si girò su un fianco per guardarlo. “Andiamo… in Giappone il mese prossimo” ripeté a voce bassa.
Il maggiore restò in silenzio molti attimi. “In… Giappone?”
“Con la barca. In due ce la si può fare ad attraversare l’oceano.” Rise piano. “Facciamo il percorso del sole.”
Non rispose e lui seppe che per quel week- end non l’avrebbe fatto.
Si limitò ad aspettare, la risposta arrivò durante la settimana.
Capitava spesso che lui uscisse con gli amici e al ritorno, chiamando sul cellulare trovava l’uomo ancora in ufficio, nonostante l’ora tarda.
Quella volta, fu Nicholas a telefonare.
Il tono di voce all’inizio non gli piacque, il discorso sembrava non voler partire, ogni argomento finiva nel silenzio.
“Voglio venire.” Disse poi all’improvviso lui e Miguel sul momento non seppe neanche associarla a nulla, la frase.
“Voglio venire con te in Giappone.”
Avrebbe voluto urlare, o forse lo fece, saltando sul letto di Raul in piena notte, nell’entusiasmo più totale.
Dopo qualche giorno si ritrovarono a fare la lista delle cose che potevano servire, disegnare la rotta perfetta.
Il primo giorno di agosto era una splendida giornata.
Il sole, il vento, ogni cosa era perfetta, sembravano voler preparare la partenza perfetta.
Più volte ricontrollò la stiva e le provviste mentre aspettava l’arrivo del consulente finanziario nell’enorme porto di Marina.
-Ha trovato traffico- si disse alla prima ora di ritardo.
La concentrazione era persa, lesse e rilesse lo stesso rigo decine di volte prima di decidersi a chiudere il libro.
-Forse dovrei fargli uno squillo- pensò alla seconda ora.
-Dio, forse ha avuto un incidente- il pensiero a sentire la telefonia indicargli il contatto spento.
-Calma, forse è ancora in ufficio- ma gli squilli si susseguirono e la risposta non arrivò.
Attese otto ore, prima di risalire in macchina e tornare nel cuore della città.
L’ansia che aumentava ogni minuto, toglieva il respiro. Il dolore che dalle tempie esplose in tutto il cranio, gli spasimi nello stomaco sembravano voler rigettare anni di cibo.
Parcheggiò quasi di sbieco sotto il grattacielo degli uffici finanziari, salendo quasi di corsa al piano del consulente.
Era in riunione, era in riunione e non aveva visto l’ora, si ripeteva.
Avrebbe fatto una scenata, poi l’avrebbe stretto e tentato di non scoppiare in lacrime alla stupida tensione che l’aveva preso per tutto il giorno.
Lo sguardo della segretaria lo percosse da capo a piedi, con un ciglio sorpreso e superiore.
“Desidera?”
“Devo incontrare Nicholas Coleman.”
Lei lo guardò ancora a lungo poi guardò i tanti fogli con fare inutile prima di tornare a fissarlo. “Il signor Coleman oggi non è in ufficio.”
Il tono sembrava non essere minimamente mascherato nell’ipocrisia.
“Senta, mi ha chiesto di portargli una cosa, o di lasciarla nel suo ufficio.”
“Di che si tratta?”
“… Il preventivo per alcuni lavori.”
“Oh, lei è il signor Brown?”
“… Già…”
“Venga. Può lasciare tutto sulla scrivania del signor Coleman.” Concesse finalmente alzandosi.
Cosa si aspettava da quel teatrino, non seppe spiegarselo. Voleva solo entrare in quel dannato studio che sembrava rapire l’uomo più di quanto non facesse lui stesso. Solo accertassi che non avesse davvero scelto il lavoro a loro.
Lo studio sembrava l’ostentazione pura del lusso.
Ogni oggetto sembrava brillare di unicità, l’ordine quasi intimoriva.
Di Nicholas nessuna traccia vivente.
Aprì la borsa afferrando la cartellina con le carte nautiche piegate all’interno.
“Posso poggiar—“
La voce gli morì sull’istante.
In una cornice satinata, lo sguardo dell’uomo splendeva come il sorriso sul suo volto.
Accanto a lui, una donna bionda, vestita in abito da sposa.
La foto accanto contrasse in modo inverosimile lo stomaco. La nausea attorcigliò la gola, il fiato mancò in modo netto.
C’erano due bambini, la stessa donna, in quella che dava tutta l’idea di essere un ritratto di famiglia.
“Si sente bene?” La voce della segretaria arrivò quasi attutita all’udito.
La sensazione di vuoto sotto i piedi non sembrava voler sparire.
Lei l’osservò qualche attimo poi guardò le foto e sorrise.
“Ah, ha visto che belle?” disse. “Sono una famiglia splendida. Chissà dove saranno andati in vacanza questo mese.”
Le labbra si schiusero, ma della voce nessuna traccia.
La confusione nella testa, spaccò in due l’anima.
Il cielo, così vicino, in quel piano tanto in alto, cadde nella stanza.
Il caos nel cuore si scatenò alla vista di quella frase limpida e vera nella mente.
Sei tu l’amante.

Ogni volta che Nicholas, nella sua vita, si era prefisso un obiettivo l'aveva associato ad un luogo.
Il ranch era la casella dalla quale allontanarsi, Los Angeles la meta per l'ascesa alla classe sociale, Chicago la prova del successo economico, Las Vegas lo sfondo degli sfoghi sessuali.
Poi c'era, in fondo, il Giappone, che rappresentava il culmine della vita.
Il paese del sol levante era il premio finale, quello che avrebbe meritato solo alla fine del gioco, solo dopo aver cancellato ogni tappa.
Era tutto sicuro, tutto deciso, tutto tremendamente ordinato.
Poi pian piano ogni cosa aveva deciso di cambiare rotta.
L'aveva fatto su una barca, che era diventato il simbolo stesso del suo allontanamento.
Aveva passato l'intera vita in un porto sicuro, un porto che aveva costruito dal nulla, che aveva protetto e curato.
In preda ad un'incredibile follia, poi, l'aveva abbandonato.
Aveva scelto il mare alla terra.
Aveva iniziato a immaginare la libertà come vento e non più come acciaio.
Aveva abbassato la guardia, allentato la tensione; smesso di ridere per compiacere e iniziato a farlo divertendosi; aveva lasciato scorrere il sangue, gli aveva concesso di scorrere più forte nel petto e di far battere più violentemente il cuore.
Aveva ceduto.
Aveva ceduto ma non combattuto.
Per lungo tempo aveva lasciato che fosse la corrente a decidere dove portarlo.
Remi a bordo, erano le onde a scegliere la rotta.
Miguel era mare agitato, Eleonor il porto che aveva lasciato.
Il tempo era passato più in fretta di quanto si aspettasse, più velocemente di quanto credesse possibile.
Era arrivato il momento di scegliere, di decidere, di combattere le correnti.
Questo momento era arrivato ancora una volta come una proposta che era più un ordine.
“Andiamo… in Giappone il mese prossimo”
Aveva tentennato, poi aveva preso i remi in mano e scelto tra l'orizzonte senza alcuna certezza o il ritornarsene al riparo.
"Nicholas..."
La voce della signora rimbombò nella stanza, prima che lui alzasse lo sguardo.
Carole Moore Coleman ormai aveva i capelli completamente bianchi.
Ricordava che nel suo passaggio tra gli undici e i diciassette anni, la visione di sua madre era cambiata completamente.
Da che le sue braccia sembravano poter sorreggere il mondo, era apparsa sempre più debole, più esile.
Lui cresceva, lei restava uguale.
Ora che le spalle si erano leggermente piegate al tempo, gli occhiali da vista erano diventati un accessorio obbligatorio, l'udito aveva iniziato a giocare brutti scherzi, appariva ancora più fragile.
Eppure, la sua voce riusciva a calmarlo ancora come quando aveva tre anni e il fienile sembrava essere pieno di mostri.
"C'è una persona per te, Nicholas..." aggiunse dopo qualche attimo.
La reazione istintiva fu di accigliarsi.
Eleonor detestava il ranch quanto o forse più di lui.
Per un attimo quasi ci sperò, però, di vederla. Poteva quasi credere, per pochi secondi, che una grande dimostrazione da parte della donna l'avrebbe portato a crederla più vicina.
"Una persona?" si ritrovò a ripetere.
Lei annuì piano. "E' un ragazzo, l'ho fatto sedere in salotto." L'osservò mentre la sua espressione dovette colorarsi della più sincera sorpresa. "Non mi sembra il caso di farlo aspettare"
Non è possibile. Le parole che risuonavano nella mente.
Miguel. Il nome che chiamava il cuore.
Come un automa al quale fosse stato dato un ordine si ritrovò a scendere le scale ed entrare nel salotto di un caldo legno, lontano anni luci dal design della sua casa.
Ritornare dopo un paio d'anni di totale assenza, aveva fatto una strana impressione.
Il casale era apparso in tutt'altro modo. Ciò che aveva sempre cercato di evitare era apparso intensamente. Per la prima volta il bisogno di trovarsi lì, la sensazione di essere nel posto giusto, nell'unico posto esatto, l'aveva colto profondamente.
La consapevolezza di tutti gli anni passati a scappare e il rendersi conto di quanto fosse sbagliato l'aveva spiazzato.
Tutto ciò che aveva desiderato era stato un errore.
Il messicano era di spalle, davanti al camino.
Un brivido percorse la schiena nel modo più violento quando la sua presenza fisica lo raggiunse totalmente.
Non aveva senso.
Quella situazione lo portò immediatamente nella più totale confusione.
Le redini che portavano avanti la sua stessa vita erano ormai più che perse.
Le spalle del ragazzo erano dritte come sempre, sembrava quasi impossibile leggervi tensioni o rigidità.
In una mano teneva una delle foto poste sulla mensola del camino.
Poteva immaginarla già intravedendo un angolo della cornice.
Era una foto di quando aveva sei anni e il padre gli aveva insegnato a fare il nodo alla cravatta.
Uno strano senso di potere e autorità l'aveva riempito nel riuscirci al sessantesimo tentativo.
"Da grande avrò una cravatta diversa ogni giorno" aveva esclamato.
Il padre aveva riso e gli aveva accarezzato i capelli.
"Io spero solo che tu possa trovare qualcuno che ti faccia il nodo prima di uscire, Nick" aveva risposto.
Il viso del ragazzo si mosse nell'avvertire la sua presenza, girandosi leggermente di lato poi ancora di più, fino a guardarlo.
Sentì le labbra schiudersi immediatamente, ma la voce mancò del tutto, le parole anche, la facoltà di comporle soprattutto.
"Mi dispiace" l'unico tentativo sussurrato, mentre entrava nel salotto.
Se c'era qualcosa per cui si era innamorato quasi subito di Miguel era la sua capacità di parlare con il viso.
La rabbia che provava in quel momento era palese in ogni angolo del volto. La delusione tangibile.
Il messicano abbassò lo sguardo, tornò a guardare la foto e con un movimento controllato la posò al suo posto.
"Esattamente di cosa ti dispiace?" rispose tagliente.
Il tono di voce era uno scoppio controllato, l'aggressività pronta a scattare.
Sa tutto. Il messggio chiaro tra le righe.
Aver passato l'intera vita ad allenare la voce, la dialettica, i modi sembrò totalmente inutile.
Nella mente tutto correva alla rinfusa, nessun pensiero si fissava per più di pochi attimi.
Confessare la voglia impellente, implorare ancora più urgente, cercare una scusa quella più vigliacca.
Sedersi sulla poltrona serviva a prendere tempo.
"Per tutto" Il pericolo di cadere da un momento all'altro in un baratro era pressante, la consapevolezza di esserci già precipatato un peso nello stomaco.
"Per le cose non dette, quelle dette ma false, per il Giappone... per... ora."
Aveva voglia di spiegare, voglia di raccontare dall'inizio, descrivere ogni estate, ogni inverno o primavera, tutti gli autunni passati tra prati verdi e poi successivvamente circondato da cemento.
Avrebbe voluto dire come aveva scelto e disfatto tutto da solo, costruendo e distruggendo la sua vita e quella delle persone che l'avevano amato.
Avrebbe voluto fargli capire i motivi, le paure, giustificare tutto con codardia.
Avrebbe voluto pregarlo di non lasciarlo e avrebbe voluto dirgli ancora una volta che lo amava.
Urlare che ogni volta che l'aveva detto era stato sincero.
Ma tacque.
Rimase in silenzio e con lui il messicano.
Miguel non prese parola, si limitava a guardarlo e il peso del suo sguardo bruciava più di una raffica di insulti.
Avrebbe preferito sentirlo urlare, lasciarsi vomitare addosso disgusto e odio, ma il vuoto premeva contro le orecchie.
"... Mi dispiace." Ripetè.
Non c'erano altre parole.
Lui era il primo ad odiarsi, era il primo a provare ribrezzo per tutto ciò che aveva combinato, il primo a condannarsi.
Miguel, invece, rise.
Tagliente e serio, ma rise, sedendosi di fornte a lui.
"Non ho fatto questo viaggio per sentirti dire due parole smozzicate, Nicholas." Il tono fendeva l'aria come piccole schegge. "Voglio la tua versione dei fatti, almeno."
Fu la volta del consulente quella di alzarsi in piedi, con un movimento meccanico, impostato.
"Ma cosa vuoi che ti dica? Ormai già sai tutto, no? Per essere qui."
"Ho incontrato tua moglie, Nicholas. Tua Moglie, nella tua bella casa, ho visto le foto dei tuoi figli a lavoro, mi hai fatto aspettare ore senza darmi notizie, mi sembrano tutti ottimi argomenti dai quale partire!" L'autocontrollo iniziava a perdere efficacia, a stento il messicano riuscì a controllarsi seduto.
Il maggiore dei due mosse qualche passo, affondando le mani nelle tasche.
"Mio padre è stato male." iniziò. "Sono partito la notte scorsa, nella fretta ho lasciato cellulare e tutto a casa."
"Perchè partire con me quando avevi un viaggio in programma con la tua famiglia?" Ora era in piedi. "La tua segretaria ha passato un quarto d'ora a raccontarmi dei vostri prog--"
"Dannazione, Miguel." Voltarsi finalmente a guardarlo era un obbligo. "Ma pensi che vada a dire a quella del mio viaggio con l'amante?"
"Non osare usare quella parola, Nicholas!" La rabbia ora totalmente palese. "Tu hai idea di cosa è stato andare prima al tuo ufficio, poi a casa tua? Parlare con tua moglie!" Il tono di voce sempre più alto. "Ci frequentiamo da più di un anno e non mi pare che tu abbia voluto solo una storia di sesso! Voglio solo capire. Solo capire che cazzo è stato. Cosa è stato per te. Un gioco? Uno svago? L'avventura omosessuale perchè la tua bella vita ti stava annoiando?"
L'aria pareva riempirsi, come una nuvola gassosa faceva chiudere la gola e la voglia di uscire da quella stanza pressava da ogni angolo.
"No!" Il bisogno di interrompere quel fiume. Respirare a fondo non aiutava. "No." Chiudere gli occhi e rendersi ancora conto della propria vigliaccheria, l'impossibilità di ogni fuga.
Ora poteva solo stringere le mani sui remi, pregare che il mare si quietasse o decidesse una volta per tutte di mandarlo a picco.
"No." Ripetè ancora tornando a guardarlo. "Non è un gioco, non è neanche il bisogno di sesso, Miguel. Sai quanti ragazzi potrei avere solo pagandoli per una notte? Non mi costerebbe niente andare fuori città e conquistarne tre, quattro a notte." Iniziava a salire la voglia di spiegare, il desiderio di lasciarsi capire. Il bisogno di urlare. "Io non mi aspettavo di arrivare a questo punto. Non avrei mai pensato a tutto questo. Non..." Poi le parole mancavano, di botto, l'ansia di non riuscire a comunicare attanagliava la gola. "Non... eri programmato."
Ed era tutto lì il problema.
Era tutta lì la sua vita.
Il volto del giovane cambiò immediatamente a quella frase, però.
Lo scoppio di ira era palese.
"Ho passato la mia intera vita a programmare tutto." Interromperlo sul nascere fu una scelta mossa dal profondo. La voglia di non essere frainteso troppo forte. "Volevo... Volevo solo il meglio. Volevo vincere. Volevo tutto. E pensavo si potesse ottenere solo così. Solo sacrificando ogni attimo ad un ideale di ricchezza, ad un ideale di felicità. Lavoro, soldi, famiglia. Era questa la perfezione." Le labbra del messicano si strinsero. Nicholas rise, a voce bassa, profonda, fissando ancora lo sguardo nel suo. "Sai cos'è stato capire di essere gay? E' stato come morire. Voleva dire non essere adatto alla felicità. Non averne i requisiti. E quindi è stato così, lo è stato per anni. Tutti i ragazzi con i quali sono stato erano solo uno sfogo, non era neanche sesso era ancor meno." Respirare piano, tentare di calmarsi. "Ed era un incubo. Era credere che la felicità non potesse mai esistere perchè avevo tutto, tutto ciò che credevo servisse." Ancora una pausa. "Poi sei arrivato tu. E non eri nei piani, non eri neanche tra le possibilità di essere preso in considerazione. Eppure c'eri. C'eri ed era tutto completamente diverso."
Il messicano restò ancora in silenzio, senza mai distogliere lo sguardo dal suo mentre l'ascoltava.
"Però, tutto quello che ho mi è costato fatica, mi è costato anni per ottenerlo. Io non volevo perdere tutto."
L'altro rise piano, incrociando le braccia al petto.
"Perdere tutto per me." Commentò.
"Perdere tutto per te." Ripetè a voce più bassa il consulente. "Perdere tutto per un rischio. Ritrovarmi tra qualche mese senza l'una né l'altra alternativa."
E la frase suonò male, ma non c'erano altri modi per esprimerla.
Era il fulcro.
La paura più grande.
Ritrovarsi da solo e sapere di meritarselo.
Miguel restò a lungo in silenzio. Tanto che Nicholas credette che da un momento all'altro sarebbe uscito e sarebbe sparito per sempre dalla sua vita.
Invece rimase.
In silenzio, ma rimase.
"Allora perchè hai detto di sì al viaggio? Per... venirci, inventando qualcosa per tua moglie?" Chiese infine.
Il bisogno di nicotina riempì la gola, con movimenti nervosi le mani cercarono il pacchetto nelle tasche. Non trovarlo affondava i piedi nel pavimento.
"Io e mia moglie ci stiamo separando, Miguel." La frase quasi fredda, amplificata dalla necessità di una boccata di fumo che non c'era.
Il messicano sussultò sorpreso alla frase, sgranando gli occhi. "Cos...?"
"Io e mia moglie abbiamo avviato una pratica per il divorzio, il mese scorso." La battuta più lenta, più esitante.
Ritornare a guardarlo ora non era una scelta, quanto un bisogno.
"Ho... dovuto rischiare" La precisazione con tono più basso, senza sapere che reazione aspettarsi.
Il silenzio riempiva l'aria appena taceva.
Il non avere reazioni dal più giovane poteva volere dire tutto e niente.
"Non... volevo partire senza dirtelo ma, avevo paura che..." Avevo paura di tutto, la verità.
Miguel distolse lo sguardo, e le braccia al petto si irrigidirono.
"Tra... Giappone e Hawaii, preferisco il primo." Il tentativo di un sorriso stroncato dall'occhiataccia del minore.
"Voglio vedere la documentazione." La sentenza.
"Pensi che mentirei su questo?"
Lo sguardo di risposta fu più che esplicativo.
"Penso che d'ora dovrò controllarti molto di più, Nicholas."
L'uso del futuro fu un tuffo al cuore.
La terra sotto i piedi tornò tutt'insieme, mentre muoveva un passo verso il messicano.
"Questo vuol dire che..." Non sapeva bene che significato assegnargli.
La mano scura del più piccolo gli si posò sul petto bloccandolo prima che si avvicinasse troppo.
"Questo..." iniziò a fatica nel trovare i termini giusti. "Questo non vuol dire niente. Devo ancora capire cosa voglio ora."
"Però sei venuto fin qui."
"Sono venuto qui perchè avevo voglia di prenderti a calci in culo, Nicholas. E se non fosse stato per una vecchia sull'aereo che per due ore mi ha parlato di amore non sarei mai stato tanto buono."
Posare la mano sulla sua era cercare il minimo contatto.
"Quindi... non sei qui perchè ci tieni a me?" E avrebbe tentato di abbozzare un sorrisetto se in quel momento la mente non fosse stata del tutto scollegata dal controllo del corpo.
"Per nulla." La risposta pseudo sostenuta.
"Va bene." Il silenzio ora scioglieva la più piccola tensione. "Ma posso baciarti?"
Miguel rise riprendendo le distanze tra di loro.
"Non bacio gli uomini sposati." L'esitazione. "Non consapevolmente."
La risata nacque come bisogno di rilassare totalmente la gola.
"Va bene, va bene. Ho capito."
Il messicano restò fermò poi dopo qualche attimo portò lo sguardo su di lui.
Se non fosse stato chiaro prima, allora apparve tutto limpito.
Tutto vero, tutto facile.
Il rebus che pensava di aver capito anni e anni prima, aveva assunto tutt'altro significato.
L'ossimoro che aveva sempre in mente ora poteva individuarsi come un orizzonte curvo.
Le curve che gli si erano rivelate avanti man mano, l'orizzonte come la linea mai definibile.
Miguel era entrambi.
Ora non gli avrebbe permesso di farsi lasciare.
Ora aveva deciso di rischiare, quindi lottare.
Osservò ancora il messicano, lo sguardo castano, la postura ferma.
Miguel era lì e non si mosse per andarsene.
Restò lì quando la madre arrivò qualche decina di minuti dopo a chiedere se si fermasse per cena.
Rimase lì quando dopo aver sparecchiato ogni cosa, fu Nicholas ad alzarsi.
Lo guardò quando si schiarì la voce, l'osservò portare lo sguardo sui suoi genitori, tentare giri di parole, ritornare su concetti lasciati per poi abbandonarli di nuovo, trovare il giusto discorso.
E non poté sopprimere il piccolo sorriso nel sentire la voce dell'uomo pronunciare quella frase.
"Credo di aver trovato la persona con la quale essere felice."







1 Ehi, quando ho sentito
lo sparo del tuo sguardo addosso a me
lo sai
come impazzito il cuore mio
si è messo a correre
e non si ferma più
e non si ferma più
Ma quando poi
ci siamo messi a parlare
e hai detto quella cosa stupida
è stato come gettare
sul mio entusiasmo acqua gelida
e non ti voglio più
io non ti voglio più
Scusami tanto
ma il mio canto non sei tu.
Era una falsa partenza
(Falsa partenza, Eros Ramazzotti, www.musicbabylon.com)

Edited by Kaite - 14/8/2011, 14:24
 
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