The corner of Silence, Preghiere Agnostiche

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Aborted_666
view post Posted on 27/9/2011, 15:37




Rating: NC17/Rosso, per scene esplicite di sesso e per argomenti delicati.
Genere: Angst, drammatico, dark, romantico
Avvertimenti: SLASH, ovviamente!
Autrice: Aborted_666
Sinossi: Alexander viene mandato in un manicomio a causa di un omicidio. Ivi incontra Jim, un uomo psicolabile, visionario, ma fin troppo razionale nella sua follia degenerante. Alexander, però, si rende conto che c'è qualcosa di terribilmente sbagliato in tutto quello che sta accadendo, non appena anche lui comincia ad essere vittima di strani incubi persecutori. Nel mentre la follia di Jim degenera, si estende anche al di fuori della sfera onirica, ed i mostri da lui stesso generati cominciano a consumarlo dall'interno. Fra i due sorge una profonda ossessione, favorita anche dalla loro convivenza forzata e dalla situazione degradante nella quale stanno sprofondando, fino a quando, raggiunta la vetta del delirio, Alexander decide di prendere in mano la situazione una volta per tutte...


Attenzione: la storia che state per leggere contiene argomenti delicati ed un linguaggio piuttosto forte. E' pertanto consigliata ad un pubblico maturo.

NB: temo che questo lavoro si articolerà in parecchi capitoli, dal momento che la trama è piuttosto complessa. Il prologo ed il primo capitolo saranno un po' lenti, ma appena la vicenda comincerà a svolgersi, prenderà un ritmo più cadenzato (almeno, si spera! xD). Buona lettura!


THE CORNER OF SILENCE
- Preghiere Agnostiche -





- Prologo: «Due sassi incastrati nel collo di bottiglia» -


Il suo incubo prendeva forma ed appassiva in una cacofonia di singulti.
Si materializzava per qualche breve attimo, rimaneva sospeso in un dormiveglia indecifrabile, si scuoteva leggermente ed evaporava sotto ai suoi occhi.
Si dispiegava, assumendo le fattezze dell'antica pergamena dei suoi ricordi, ma rimaneva un soggetto incomprensibile – ed ecco che, nuovamente, tremava e si dissolveva.
Osservò le pareti umide che l'opprimevano, permeate di miasmi insopportabili - e da esse, come il presagio di una maledizione, sporgevano sagome amorfe, che si riassorbivano con un incessante ed ipnotico moto ondulatorio.
Era la sua pazzia, il suo delirio; era la nausante consapevolezza che da qualche parte, nella sua testa, un parassita cancerogeno consumava il suo senno.
Era il semplice disciorgliersi della neve sul selciato – ed insieme ad esso tremolava nell'aria l'ululato scricchiolante delle suole che la insozzavano, come un rigurgito sonoro di ossa che si frantumano.

«E' paranoia. In fondo sapere che sei vivo è la notizia peggiore.» Le ombre si dissiparono. Allo scricchiolìo della neve si sostituì quella voce, che nella stanza angusta risuonò con la potenza di un urlo.
«Paranoia, mh?»
«Sei solo fottutamente pazzo – come tutti qui dento, del resto. Basta non pensarci.» L'uomo rise.
«Tu non lo sembri.» Finalmente si voltò – ed a quel punto le tenebre che attanagliavano ed annebbiavano la sua mente si tramutarono in uno sfondo dalle tinte invadenti, che trasformavano lo spazio intorno a lui in un mondo bidimensionale; il suo interlocutore si ridusse ad una sagoma dai contorni labili.
«Io non lo sono.»
«Eppure ti hanno rinchiuso in questa fogna del cazzo. Benvenuto.» L'altro, nuovamente, rise – una risata bassa, gutturale, tutt'altro che divertita.
«Se uccidi sei pazzo, a questo mondo,» rispose. Seguì un attimo di silenzio, intervallato dal frusciò degli abiti logori che indossavano.
«E' dicembre. E' un fottuto, disgustosissimo dicembre. Uno dei tanti che passerò qui dentro a marcire,» mormorò. Fece una pausa, cercando di scorgere l'espressione dell'altro. Ma c'era solo un alone nero intorno a quella figura, che lo ricopriva di un imperscrutabile mistero. «Sì, è dicembre... - continuò - Se uccidi un uomo a dicembre, il suo sangue tingerà la neve e sarà la prova lampante del tuo crimine.» Rise, prima di proseguire: «Devi ucciderlo in agosto, cospargerlo di legna secca e bruciarlo – ed allora quel caldo sarà attribuibile all'afa estiva. Sarà un falò di foglie morte e putrescenti, di merda e scarti. Ed il sangue andrà ad accarezzare le radici degli alberi in fiore.»
«Cazzo, ci pensi la notte a queste cose? Mentre sogni mostri e tutte quelle cazzate da mente bacata? Per te uccidere una persona significa avere uno spunto suggestivo per creare un racconto dell'orrore? Beh, hanno fatto bene a sbatterti qui dentro ed a buttare la chiave.»
«Pensarlo e farlo sono cose diverse.»
Per l'ennesima volta quello rise: «Ah! Pazzo, ma sagace. Hai un nome?»
Sospirò: «Qui dentro mi chiamo feccia della società – ma non credo che ti sia di grande aiuto. Non ricordo il mio nome, suppongo che sia marcito insieme al mio cervello bacato. Jim; chiamami Jim.»
«Jim?» l'individuo misterioso schioccò la lingua, dietro alla coltre di tenebre.
«Era il nome del mio cane.» E si stupì nel rendersi conto che quello fosse l'unico nome che ricordava.





- Capitolo I: «Le due pecorelle smarrite» -

Il mattino giunse quasi inaspettatamente. Fu il clangore del chiavistello a svegliarlo, distogliendolo dalle quotidiane allucinazioni oniriche. Ne fu quasi disturbato, mentre sentiva il sudore freddo far contrasto con la ventata di aria gelida che lo travolse.
«Feccia della società, alza il culo.» Come di consueto, prima ancora che il nuovo giunto terminasse la frase, lui si alzò. Gli stava già porgendo la vena, tiepida e pulsante di sangue infetto.
L'iniezione fu rapida, dolorosa e con grande probabilità avrebbe aggiunto un ematoma al suo braccio ormai livido.
«Anche tu, muoviti. Alzati e ringrazia Dio, perchè ti sto solo facendo un favore.»
Ah, lui. Se n'era quasi dimenticato – la nuova pecorella smarrita, giunta all'ovile del buon Dio -, relegandolo a quella dimensione mentale in cui ormai non esistevano altro che incubi, allucinazioni, buio a perdita d'occhio ed entro il quale stava affondando con sempre maggiore frequenza – il fondo di quel baratro sembrava inghiottire l'infinito stesso.
Non appena il portone di metallo fu richiuso, lui si riadagiò sulle federe sgualcite. Alla sua destra qualche scialbo raggio di sole illuminava l'individuo della notte precedente, voltato di schiena – un'ampia schiena, ricurva sotto il peso della stanchezza e del patimento.
«E tu? - Sussurrò, - tu non hai un nome?» Quella domanda, così improvvisa, troncò di netto il silenzio teso che si era creato.
Quello, come aveva fatto durante la loro prima conversazione, rise. Rise sguaiatamente, quasi avesse appena udito un racconto terribilmente esilarante; rimase tuttavia sottintesa l'amarezza che in un simile tipo di narrazione non si sarebbe potuta riscontrare.
«Il mio nome non lo ricordo – disse infine. - Chiamami Dio.» Quando il riso isterico si placò, si girò lentamente verso Jim ed in un sussurro aggiunse: «Dio B******o – da qualche parte deve pur stare, no?» Ed in quella frase era racchiusa la penosa solidarietà che, in casi come il loro, suonava quasi come un obbligo.
Jim posò attentamente lo sguardo su di lui, mosso dalla morbosità di un folle, dal bisogno di un recluso e dalla mera curiosità che l'altro risvegliava in lui. Nel suo volto scavato, intravide la semplice armonia che si nascondeva sotto quella maschera di malcelata sofferenza. Non c'era altro, in quella stanza avvolta dalla penombra, che potesse catalizzare la sua attenzione; così, nel silenzio della meditazione, continuò per interminabili minuti a fissare la linea del suo profilo, l'ombra sbiadita che proiettava sul muro e le pieghe che prendeva il suo corpo – e per un breve istante lo colse la commozione, nel ricordarsi che la terza dimensione tramutava lo spazio intorno a lui in qualcosa di reale e tangibile.
Pensò che quel nome, Dio, fosse perfetto per uno come lui. Ma non aveva in mente quell'immagine mortificante di un Dio trascendente e misericordioso per cui interi popoli morivano; non quel Dio buono e caritatevole per cui si edificavano chiese e santuari, nella mera speranza di poter essere salvati. No. Jim non credeva in quel tipo di divinità, così distante, intangibile, penosamente superiore a qualsiasi cosa lo circondasse. Il suo Dio era possente, crudele, tonante e tinto dallo scoppio vermiglio di fiamme roventi; era energia insita nella natura stessa.
Non ricordava, in realtà, cosa ci fosse fuori da quelle mura. Non ricordava che sapore avesse l'acqua pulita; non ricordava la sensazione che scaturiva dal semplice contatto con la terra. Tutto ciò che apparteneva alla memoria del reale era ora solo l'ingranaggio del meccanismo guasto delle sue allucinazioni – e più passava il tempo, più la concretezza dei suoi ricordi si deformava, si alienava da se stessa e diveniva lo scarto informe della sua malattia.
«Dio, chi hai ucciso?»
L'uomo si voltò a guardarlo. Per un solo istante guizzò sul suo volto contratto un accenno di fastidio, di rabbia; ma subito dopo sorrise.
«Diamine, non chiamarmi veramente Dio; è un nome abbastanza ridicolo,» mormorò, tornando a fissare il vuoto.
Jim non rispose, né tantomeno si soffermò a pensare al fatto che l'altro non avesse risposto alla sua domanda; si limitò a guardarlo, come se il non sapere come chiamarlo comportasse una pecca nella comunicazione - in fondo il suo unico problema si riduceva a quel poco.
«Alexander – disse l'uomo, cogliendo il significato di quel silenzio. - Mi chiamo Alexander.»
Jim annuì; fu tuttavia atterrito da un'inaspettata delusione. Ora che sapeva il suo nome, si trovò costretto ad ammettere a se stesso che non cambiava nulla: rimaneva, fra loro, quell'inspiegabile distanza, quella difficoltà nel dialogare – dovuto forse al fatto che un pazzo non fosse in grado di intrattenere alcun tipo di relazione con un uomo normale.
Sì, Alexander era un nome normale, troppo normale. Non rientrava più nella visionaria sfera dei suoi pensieri, non rimandava più all'immaginifica dimensione della sua fantasia deviata.
Alexander non era più Dio, era solo uno dei tanti che, se solo lo avessero voluto, avrebbero potuto fare quello che volevano della propria vita.
L'uomo osservò per qualche breve istante l'espressione contrita del suo compagno di gabbia, per poi sospirare.
«Dimmi una cosa, Jim: l'avere davanti una persona come me non ti spaventa? Tu sarai anche pazzo, ma io sono sano... ed un assassino. Ho ucciso a sangue freddo e non me ne pento.» Detto ciò, addossò stancamente la schiena al muro lurido.
Jim tese le labbra in un sottile, fragile sorriso. Alzò il volto per osservare i raggi di fioca luce che filtravano dalle sbarre della piccola finestrella posta in alto; infine tornò a posare lo sguardo su Alexander.
«Perchè dovrei? Saperlo, invece, mi consola: così, fra i due, sono io quello che può definirsi normale.» L'altro aggrottò le sopracciglia, espellendo tutta l'aria che aveva nei polmoni con un lungo, sonoro sospiro.
«Potrei ucciderti, - ribatté - Potrei impazzire anche io per il senso di colpa ed essere travolto da un istinto violento nei tuoi confronti.»
Jim smise immediatamente di sorridere. Il suo sguardo si fece serio, cupo; i suoi occhi si ridussero a due fessure luminose, da cui traspariva un incontenibile rancore. Avrebbe voluto rispondergli con mille e mille frasi, avrebbe potuto rinfacciargli il fatto che stesse sbeffeggiando la sua condizione con un'incauta leggerezza; ma più di quello, avrebbe dovuto rimproverargli il fatto di aver ridotto la sua follia a qualcosa di biasimabile e correlato a sentimenti così terreni e transeunti. Avrebbe sì voluto rispondergli tutto questo, vomitandoglielo in faccia con disgusto ed insofferenza, ma non lo fece.
Al contrario: la sua espressione mutò, divenendo un ghigno isterico; un orrendo, soddisfatto compiacimento della propria situazione.
«In fondo sapere che sei vivo è la notizia peggiore, – rispose, con una pacatezza carica di tensione – Ti prego di liberarmi, Dio. »
Alexander non rispose, non riuscì a farlo. Fu però scosso da brividi graffianti, da sentimenti terribilmente contrastanti fra loro, da una cacofonia di battiti cardiaci fuori controllo che gli rimbombavano in tutto il corpo; fu fatto strumento, cassa di risonanza di un'infinità di pensieri osceni e vergognosamente umani.
«Jim, - mormorò, socchiudendo le palpebre in un tremolìo ansioso, - Jim...» La sua era una preghiera, una cantilenante invocazione; era la tenue, stanca esplosione di quel nugulo compresso di dolore e necessità, che gli gravava addosso da quando l'avevano sbattuto là dentro, e che trovava requie in quel nome terribilmente vacuo – l'unico nome che, da quel momento in poi, avrebbe potuto chiamare.
«Perché cazzo ti hanno rinchiuso in questo inferno?»
Jim scosse la testa. Il suo volto era inespressivo, ma i suoi occhi rimasero chiusi, stretti quasi con violenza: ivi si celava il suo straziante segreto - l'ultima fune che lo collegava alla realtà.
«Sono pazzo,» disse. Ma la voce era troppo vacillante; troppo incerta. Sembrava che la sua unica, triste certezza si fosse tramutata in quello che realmente era: una maledizione, un'impietosa condanna inflitta da...

Jim improvvisamente s'irrigidì. Le sue pupille si assottigliarono, fino a perdersi nel buio delle iridi corvine; il suoi occhi divennero calici vuoti, entro i quali Alexander scorse solo una spaventosa, deformata disperazione; violente convulsioni cominciarono a scuoterlo, a sciogliere nella sua gola gemiti strozzati e stridenti rantoli; l'uomo si accasciò inerte sul letto, tremando, sospirando quasi fosse immerso in una nube di gas asfissiante che gli straziava la trachea. Le sue mani erano contratte in una posizione tutt'altro che naturale – e sollevandosi, muovendosi quasi a scatti, scavavano incessantemente nell'aria per cercare chissà cosa. Quando i rantoli si trasformarono in flebili grida, Jim cominciò a stringere la sua stessa gola con una forza inaudita; le unghie, sporche e spigolose, lacerarono la pelle, rompendosi a loro volta. Ed in quel marasma di mani, ferite e pelle orrendamente dilaniata, il sangue impastava tutto - come un'oscena opera d'arte monocroma, che pareva brillare nell'oscurità calante.
Alexander osservò la scena con l'orrore dipinto in volto. Jim ormai gridava, si contorceva nelle federe insudiciate dal lerciume e dal sangue fresco ed intanto continuava a martoriare quel suo corpo scarno e deperito con una veemenza animalesca.
Lo spettatore fece un passo in avanti, fremente di paura ed angoscia. Tese l'orecchio per cercare di sentire se qualcuno fosse diretto alla loro stanza per soccorrere quel paziente riverso sul letto, con la schiena inarcata e la bocca spalancata oltre i limiti del possibile; ma non giunse nessuno. Il corridoio fuori dalla loro cella era silenzioso, presumibilmente deserto - e lui rimase solo in quella situazione drammatica.
Tentò di afferrare la mano di Jim, ma quello sfrustava l'aria come per scacciare il demone della sofferenza da sé. Alexander fu colpito sul braccio con forza, ma non si arrese. Afferrò antrambi i polsi dell'uomo, che cominciò ad urlare più forte e con maggiore insistenza. Era quella la sua pazzia? Era veramente quella la sua terribile malattia?
Con uno strattone Alexander lo fece alzare, tentanto di immobilizzargli il busto con il corpo. Il sangue dell'indemoniato cominciò ad imbrattargli la pelle, gli abiti; alcune gocce schizzarono nella sua bocca, provocandogli fragorosi conati. Ogni gesto era ormai mosso da un cieco terrore.
Jim non si arrestava: piangeva, gridava, muoveva tutto quello che poteva muovere del suo corpo. Era una crisi senza fine, sembrava quasi che stesse attingendo energia da una fonte inesauribile.
Alexander aveva fottutamente paura - lui, che aveva causato la morte di una persona, aveva paura di tutto quel sangue che stava sgordando dalle ferite del compagno -, così, preso dalla disperazione, lanciò un grido - forte, fortissimo – per sovrastare le urla disperate del compagno. Gridò fino a sentire la gola andargli a fuoco dal dolore, fino quasi a non sentire più la voce dell'altro. Quando si arrestò, trovò Jim immobile fra le sue braccia – scosso ancora da qualche sporadica e leggera convulsione -, ansimante e gocciolante di sudore; dopo pochi secondi, quello perse i sensi, accasciandosi contro al corpo di Alexander.
Mentre le forze lo abbandonavano, Jim ebbe tempo di pensare – in un barlume di lucidità – che, nonostante tutto, la sua disperazione avesse un fondo.
Il problema era trovarlo.

Edited by Aborted_666 - 1/10/2011, 19:18
 
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NonnaPapera!
view post Posted on 1/10/2011, 14:40




Tu sei follemente geniale! Non so come ti sia venuta l'idea ma è fantastica.
Per ora ho letto solo il prologo perchè purtroppo devo rendere il pc alla proprietaria leggittima ma appena riesco leggo il primo Cappy.
per ora l'introduzione è strepitosa, mi è parto così surreale ma al contempo così terribilmente realistico che mi sono impressionata ( non lo dico tanto per dire)
bene a presto XD
 
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Aborted_666
view post Posted on 1/10/2011, 18:16




Oddio, Nonna... Grazie mille, veramente. Sono senza parole xD!
 
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Aborted_666
view post Posted on 2/10/2011, 00:44




- Capitolo II: «La nostra fragile umanità» -


Jim non ricordava nulla della conversazione del giorno precedente, né tantomeno della crisi. Quando si destò, si scoprì coperto di pulsanti e dolorosissime lacerazioni; un'unghia era saltata via quasi del tutto, le altre, per lo più, erano mozzate fino a lasciar scoperta la pelle viva.
Quella mattina, quando l'infermiere giunse a fargli l'iniezioni quotidiana, gli vennero cambiati sia gli stracci che portava addosso, sia le lenzuola intrise di sangue secco. Ma nessuno si curò di procurargli del disinfettante o delle bende, così le ferite stavano lentamente suppurando, provocandogli dolori inimmaginabili.
Tentò di sciacquarsele con l'acqua che gli avevano portato a colazione, insieme ad un bitorzolo di pane rinsecchito. Ma faceva male, dannatamente male – e furono proprio i suoi lamenti a svegliare Alexander.
«Faccio io,» gli disse quello, accartocciando degli stracci per imbibirli d'acqua.
Jim gli rivolse una rapida occhiata. Aveva paura di chiedergli cosa fosse successo, così tacque, limitandosi a sibili di dolore ogni qualvolta il compagno gli tamponava le ferite.
«Mi dispiace, è colpa mia,» proruppe Alexander. Il suo volto era sofferente, riportava i segni della stanchezza accumulata durante le interminabili ore della notte insonne.
«Non ridi, Dio? Oggi non ridi?» Quella di Jim parve una disperata supplica, quasi sentisse il bisogno di sfuggire a quell'atmosfera permeata di ansia; quasi fosse convinto di non poter sopportare oltre, se non il solito, nevrotico cinismo che ormai aveva quasi accettato.
Alexander tese i muscoli facciali in una vaga imitazione di un sorriso, ma non riuscì a fare altro. I suoi nervi erano così tesi, da sembrargli completamente anelastici; eccola, la consapevolezza: vi si aggiungeva l'ennesimo tassello e l'immagine complessiva che ne stava emergendo era terrificante. Jim era vivo, accanto a lui in quelle quattro mura grigie, ma a che prezzo? Pazzia e raziocinio si alternavano in modo allarmante nella sua fragile mente. Cosa gli garantiva che la situazione non sarebbe degenerata? Lui, ormai ne era certo, avrebbe subito la stessa sorte. Avvertiva il baratro sotto ai suoi piedi dilatarsi sempre di più, ogni ora che passava.
Jim attese una risposta, ma fu lasciato solo a grogiolarsi nel suo silenzio; emise un roco gemito di disappunto, mentre raggiungeva zoppicando la branda.
«Fottiti, dannatissimo assassino del cazzo, - sentenziò Jim. - Paranoia, mh?» Schioccò la lingua e si distese sul fianco sinistro, rivolgendo all'altro la schiena. «Non atteggiarti da duro, se ti basta così poco per dubitare di te stesso.» Dopo aver parlato, Jim rise – qualcuno doveva pur faro -; fu una risata bassa, intermezzata da violenti colpi di tosse. La gola gli doleva terribilmente e perfino il passaggio dell'aria nella trachea pareva violentargli i tessuti.
«Dannato psicolabile,» sussurrò Alexander – e nelle sue parole spiccava una dissonante nota di rammarico.
Jim non rispose.
«Vuoi spiegarmi che cosa diavolo era quello di ieri?,» proseguì Alexander, in un soffio.
«Non lo so. Non lo ricordo.»
Ma Jim aveva capito benissimo cosa fosse successo ed era ben lungi dall'averlo dimenticato. Ormai conviveva con la suo obbrobriosa mostruosità da anni, ed aveva assistito al lento degenerare della stessa.
«Urlavi, strepitavi come un posseduto e-»
«Non chiederlo, Dio. - Jim s'irrigidì e, continuando a dargli la schiena, incasso la testa fra le spalle ossute. - Quello che hai visto è esattamente quello che vuoi sapere. Ti prego, non chiedere altro.»
Alexander fu scosso da un brivido indecifrabile. L'intonazione della voce di Jim, incerta e sommessa, l'aveva in qualche modo commosso. «Smettila di chiamarmi così,» disse solo.
Jim, per tutta risposta, si voltò e sorrise. Non era divertito, era solo terribilmente teso e spaventato. La domanda di Dio aveva fatto riemergere le immagini della sera precedente: quelle spaventose ombre che lo perseguitavano, quelle deplorevoli braccia informi che lo stritolavano, quegli incubi che, assumendo fattezze sempre più vivide, arrivavano a violare la sua fisicità.
Si sbagliava. La sua disperazione non aveva alcun fondo; la sua infelicità era destinata ad inghiottire ogni istante della sua esistenza, fino a trascinarlo nei recessi più bui dell'inferno.
Voleva morire, con una forza assurdamente incoerente rispetto a quella che, fintanto che era rimasto là dentro, lo aveva spinto a vivere.
Ed Alexander lo comprese. Sentì l'enorme peso delle lacrime che stavano annegando l'animo di Jim e provò un'immensa pietà per lui. E per se stesso.
«Philip,» mormorò, all'improvviso. «Philip, l'uomo che ho ammazzato. L'uomo che violò il mio corpo di quindicenne.» La voce uscì dalla sua gola a fatica, tremolante e strozzata.
«Quindicenne...», ansimò Jim, alzandosi di scatto.
«Dodici anni fa.» Alexander socchiuse gli occhi. Il riverbero del dolore era immenso, insopportabile. Il suo cuore palpitava senza freni, oppresso dalla rabbia e dall'amarezza, tramudando ogni presa d'aria in un rimbombo di dolore assordante all'altezza del petto. Le scosse adrenaliniche gli provocarono tremori in tutto il corpo.
Digrignò i denti e, tenendo gli occhi serrati quasi con violenza, continuò: «L'uomo che distrusse la mia infanzia e la mia intera vita.» Fece una pausa, quando sentì la voce morirgli in gola. Respirò profondamente e, con lentezza, aprì un poco gli occhi, che, umidi, brillarono nel buio della stanza. «Ho goduto nel vederlo annegare nel suo sangue. Erano passati dodici anni, ma il suo volto era impresso a fuoco nella mia memoria. L'ho ucciso e lo rifarei infinite volte.»
Il suo volto, pensò Jim, non era mai sembrato così umano: le sopracciglia folte aggrottate, lo sguardo basso, perso chissà dove, le labbra strette fra loro con veemenza e quei lineamente spigolosi contratti in una smorfia di agonia. L'umanità, diversamente da quello che aveva imparato a credere, era davvero meravigliosa. Il dolore di un uomo era cosa ben più tangibile della sua follia.
«Alexander, - sussurrò Jim, - io non ho alcun ricordo di quello che c'é fuori da questo posto. Tienila stretta, almeno tu; tieni stretta la tua memoria... Perché loro ti toglieranno anche quella.»
Alexander voltò il viso verso il suo compagno, irrigidendosi. Quelle parole avevano aperto una parentesi che, Alexander ne era sicuro, avrebbero disvelato verità sconvolgenti. Il suo segreto, ormai, faceva parte di un disegno più grande di lui.
«Che cosa stai dicendo?! Loro chi?» Flemmatico, aveva sibilato tali parole con un tibro grave.
Jim sentì il cuore perdere un battito. I suoi occhi lacrimavano, ne era certo; eppure l'angoscia era troppa anche solo per tentare di articolare un pensiero; gli era impossibile, in quel momento, collegare la sua interiorità – in doloroso fermento - alle azioni concrete.

«Dio, le iniezioni...-», biascicò, mentre si copriva il volto con le mani. «Loro ci vogliono rendere animali docili, vogliono...»

Alexander rimase immobile per interminabili secondi, attendendo il seguito di quella frase, che – non aveva dubbi - non sarebbe mai arrivato. Nella sua mente avvertiva come un fracasso assordante: forse, però, era solo il battito del suo cuore. Droga, ecco cos'era. Volevano annullarlo. Volevano ridurlo a carne morta, per vederlo deperire lentamente, evitando inutili drammi. Senza sporcarsi le mani.
Vili cani, li avrebbe maledetti fino alla fine dei suoi giorni.
Soppesò per un attimo la situazione, tentando di estrapolare dalle informazioni appena ricevute una qualche soluzione. Il tempo era poco, il desiderio di preservarsi senza fine.
«Eppure tu, – articolò lentamente, - tu ricordi, non é così? Sei immune. » Gli rivolse un'occhiata intensa, martoriando il labbro inferiore coi denti in attesa di una risposta.
«No, - rispose Jim, rinfacciando all'amico tutta la sua mortificazione ed amarezza - Credo, piuttosto, che ci stia mettendo più tempo ad agire, anche se non so come.» Fece un sospiro lieve e si accomodò sulla branda, lasciando penzolare la testa all'indietro. «La pazzia mi ha colto prima, in ogni caso. Ed i dettagli svaniscono lentamente, col tempo, senza che io possa farci nulla.»
Quando finì di parlare, rimase solo un pesante alone di rassegnazione in sospeso. E non importava con quanto vigore cercasse di non pensarci o di convincersi che, una volta perse del tutto le sinapsi, sarebbe svanita ogni cosa. In fondo...

Quella notte Alexander dormì sonni irrequieti. Ombre scure cominciavano a popolare i suoi sogni ed annebbiavano le immagini della sfera onirica, riducendole a scialbe sagome informi e senza identità. Ciò che, con orrore crescente, si trovò costretto ad osservare, era uno spettacolo agghiacciante: il ricordo della realtà sfumava con una rapidità incalcolabile, cedendo il posto ad un'oscurità che inghiottiva ogni cosa. Persone afone gli si rivolgevano, ma dalla loro bocca usciva solo fumo grigio. Nomi, cose, avvenimenti si confondevano fra loro, divenendo un nugolo di concetti astratti ed incomprensibili.
Verso le quattro del mattino si svegliò di soprassalto, avvertendo una mano fredda sfiorargli la schiena sudata, attraverso lo sputo di stoffa logora che indossava. Tuttavia questo contatto improvviso, dopo un attimo di spavento, gli rese un minimo di tranquillità.
«E' iniziato, non é così?» Jim era chino su di lui, uno sguardo languido a sciogliere i suoi tratti duri.
Alexander tremava e sussultava, ancora perso nei fumi di un sonno poco ristoratore.
«Jim... Ho paura,» sussurrò. Gli occhi, socchiusi, erano persi nel vuoto.
Jim strinse la mano attorno ad un lembo della sua veste. Le sue labbra si schiusero in un tremolìo diffuso, ma non ne uscì alcun suono.
«Faceva freddo perfino nel sogno,» continuò Alexander, voltandosi verso il compagno.
«Laddove non c'é umanità, - disse Jim, in un mormorìo fiacco, - non esiste nemmeno il calore umano.»
Alexander sfiorò con la punta delle dita la mano di Jim, ancora stretta intorno alla stoffa.
«Però la tua mano é calda, - rispose. - Siamo ancora umani.»
Jim ritrasse la mano tremante, accostandola alla bocca, come per impedirsi di parlare. C'erano, effettivamente, molte cose che avrebbe voluto dirgli. Che no, ormai non erano più umani. Che no, la sua pelle era gelida, come la notte che li avvolgeva; come i sogni che lo perseguitavano. Che no, non c'era più nulla che potessero fare, se non compiangere i propri ricordi che, lentamente, si disfacevano sotto ai loro occhi increduli. Eppure non proferì parola alcuna, perché non poteva ribattere che era solo questione di tempo, prima che...
Continuò, semplicemente, a fissare il profilo del volto di Alexander, immobile nella penombra.
«Jim, noi siamo ancora umani,» ripeté Alexander. Ma risultò ovvio, anche a se stesso, che quella frase serviva più a convincersi di tale fatto, che da semplice constatazione.

Quella mattina il chiavistello lanciò il solito, grottesco cigolìo, come tutti i giorni alle otto; ma l'iniezione fu più dolorosa del solito.

Edited by Aborted_666 - 19/4/2012, 17:16
 
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NonnaPapera!
view post Posted on 17/10/2011, 08:11




Ora si conosce meglio il passato di Alexander, anche se non ho compreso perchè per un omicidio sia finito in manicomio, mentre Jim è se possibile ancora più oscuro che all'inizio della storia, pare nascondere dentro di sè, dietro la sua pazzia un mondo di verità che solo lui conosce.
La storia è davvero splendida, ci sarebbero tanti modi per definirla ma credo che alla fine splendida li riassuma tutti.
Ora ti prego proseguila perchè DEVO capire, DEVO sapere cosa accadrà!

p.s. ma l'astra storia l'hai abbandonata?
 
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Aborted_666
view post Posted on 17/10/2011, 11:52




No, no. La sto continuando, ma procede un po' a rilento per colpa dello studio. Comunque ti chiarisco subito i punti che non capisci: il fatto che Alexander sia in manicomio e' simbolico. L'ambientazione di questo racconto non e' realistica, considera questo fatto. Sostanzialmente chiunque faccia qualcosa che non va, senza tante cerimonie viene ritenuto pazzo e sbattuto in manicomio. Non esiste la giustizia o comunque una sensata procedura in casi come questo, semplicemente sei feccia, sei matto e non meriti di conservare la tua umanità. Jim, invece, e' un personaggio che mi sto divertendo a sviluppare xD. Spero di riuscire a scrivere il seguito in breve tempo, sia di questa che dell'altra. Grazie ancoraHHH!
 
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NonnaPapera!
view post Posted on 17/10/2011, 11:59




Ecco si, il fatto è che riesci a coinvolgermi talmente tanto che la parte della metafora me l'ero scordata -.-' comunque voglio il seguito! anche dell'altra ma di questa di più U.U
Anche perchè alla fine non so se l'altra a conti fatti, un volta conlcusa, mi pacerà -.-' non amo gli incesti perciò devo leggerla per capire :sisi: insomma... Scrivi, scrivi, scrivi^^
 
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Aborted_666
view post Posted on 16/11/2011, 21:09




- Capitolo III: «Non tutto é perduto»-

Alexander si svegliò di soprassalto nel cuore di una gelida notte.
Quegli incubi, per l'ennesima volta, avevano infestato i suoi sogni, impremendo nella sua mente un terrore profondo.
La stanza era buia, come si vi avessero gettato sopra un telo nero, dimenticandosi di lasciare i fori per respirare. Si sentiva soffocare, quel giorno come non mai. Aveva visto stagliarsi sulle sue parlbebre chiuse immagini tinte di sangue ed orrore, proiezioni agghiaccianti che lo avevano atterrito, lasciandolo coperto di sudore e brividi. Ma era ben consapevole del fatto che quella non fosse pazzia, erano solo i suoi spaventosi ricordi, che affioravano sporadicamente dall'oblio in cui stava precipitando.
Su di lui funzionava fin troppo bene, la droga. Con una rapidità spaventosa dimenticava nomi, volti, cose e situazioni e più tentava di ricollegare i brandelli logori della sua memoria, più essi si confondevano fra loro, divenendo gli specchi opachi ed incrostati di ciò che rimaneva del suo passato.
Si coprì il volto con le mani, scoprendosi ghiacciato.
Alla sua destra Jim gli dava le spalle, disteso sulla branda. Il suo esile corpo era rattrappito, ripiegato su se stesso in posizione fetale, ma nonostante ciò tremava e sussultava per il freddo; lo straccio sfilacciato che usavano come coperta, misero e lurido, non riusciva a trattenere il calore.
«Jim», sussurrò, alzandosi a sedere.
Il suo compagno di sventura sussultò piano, rimanendo tuttavia voltato.
Alexander lo scrutò silenziosamente per un lasso di tempo che gli parve interminabile. Probabilmente era solo il senso di vuoto che cresceva in lui a materializzare nella sua mente pensieri deviati – più deviati dei suoi incubi onirici -; eppure la vista di quella schiena minuta, spigolosa per via dell'eccessiva magrezza, piegata talmente tanto da rendere visibili tutte le vertebre della spina dorsale, lo fece rabbrividire – e lui lo sapeva fin troppo bene: quelli non erano brividi di freddo. Si maledisse con una veemenza esasperata, stringendo fra le mani tremanti il lenzuolo della sua branda tanto forte da procurarsi dolore. I bassi istinti, in carenza di ogni qualsivoglia stimolo intellettuale alternativo, urlavano di essere ascoltati, come a voler sottintendere che, ormai, non rimanevano che quelli. Era triste, sicuramente anomalo, eppure gli venne spontaneo pensare ad essi come qualcosa di normale, seppur in senso lato. Riflettevano, con amara lucidità, quella che era la vera, triste essenza della sua natura, senza aggiungervi fronzoli.
D'altro canto Jim aveva ragione: faceva freddo, troppo freddo per poter ancora, ostinatamente, affermare di essere umani; stavano lentamente regredendo ad uno stato animalesco, grezzi esseri umanoidi, scarnificati della propria infetta crosta di convenzioni, che sfruttavano il loro linguaggio per convincersi del contrario, senza nemmeno sapere se ciò che dicevano fosse o meno la verità.
Homo sapiens a metà.

Passarono interi minuti, intervallati da tali lunghe elucubrazioni, prima che Alexander avvertisse dei fruscii provenire dalla branda dell'amico. Rivolse subito l'attenzione all'altra estremità della stanza, proprio mentre Jim si girava verso di lui, rivolgendogli uno sguardo indecifrabile.
«Torna a dormire», mormorò quello.
«Impossibile.» La sua voce uscì strozzata. Per un istante, gli parve di essersi svegliato da un lungo, doloroso letargo. La voce di Jim, seppur flebile e tremante, aveva infranto definitivamente quell'aura da incubo che lo aveva intrappolato.
«Di nuovo quei sogni?», riprese pazientemente Jim, mettendosi lentamente a sedere.
«No, solo ricordi.» Si passò una mano fra i capelli ingarbugliati, scoprendosi più nervoso di quanto si aspettasse.
Jim non disse nulla; si limitò a guardarlo attraverso il labile velo di oscurità che li separava, forse per paura di incrinare l'atmosfera fragile che si andava creando. I suoi occhi erano talmente umidi da rifulgere come piccole pietre incastonate in quel volto granitico, offuscato da un innaturale pallore.
«Ricordi spezzettati, a cui manca ogni minimo barlume di coerenza. - Alexander fece una lunga pausa, per tentare di sedare le flebili convulsioni che cominciarono a scuotergli le spalle. - Forse, però, è meglio così.»
Jim abbassò il volto, mordendosi il labbro inferiore e socchiudendo le palbebre. Sembrava quasi perso in un vago senso di rassegnazione. Emise un profondo sospiro, ricacciando indietro chissà quale aspra congettura. Scosse piano la testa, prima di rispondere.
«E, persi quelli, credi che riuscirai a stare meglio? Che cosa ne sarà di te, senza la tua essenza?» Detto ciò, Jim gli lanciò una cupa occhiata.
Alexander sbarrò gli occhi, non riuscendo più a contenere gli spasmi che abbracciavano ormai ogni centimetro del suo corpo. Le parole di Jim riuscivano sempre a colpirlo nel profondo, aggiungendo tasselli a quel mosaico di verità desolanti. Senza malizia, senza crudeltà: se lui non ci fosse stato, si sarebbe eternamente crogiolato nei miraggi da lui stesso creati.

Che pena che si faceva... Vivere sulla sola base dei propri ricordi, smaniando per riaverli ed al tempo stesso sperando che si disfacessero fra le proprie dita; rinunciare alla propria persona, sperando che tra la polvere ed il fango ne nascesse una nuova e migliore; ridere della propria miseria, immaginando di essere il più grande uomo sulla faccia della terra, per poi accorgersi di essere il più vile ed il più gramo.
Boccheggiò un paio di volte, senza mai smettere di tremare, ed infine, senza alcun preavviso, scattò in piedi e lanciò un urlo gutturale, a denti stretti, al termine del quale si lasciò cadere esanime sulla branda, con la testa stretta fra le mani ed il cuore in gola. Nella sua mente mille e mille sentimenti si attorcigliavano fra loro e cominciavano prendere vita, in un subbuglio indistinto.
Quale dei tanti pensieri che lo atterrivano aveva appena esternato?
Quanti ancora gliene rimanevano da esternare?
Jim retrocesse, fino a sentire le scapole sporgenti toccare il muro gelido. Non era spaventato; semplicemente non si aspettava un tale scoppio di emozioni, a cui non era più abituato; un singhiozzo scivolò fuori dal suo corpo, senza che lui se ne rendesse conto, seguito dalle lacrime, calde lacrime che scaldarono le sue gote ghiacciate, fino a solleticargli le labbra socchiuse.
Alexander sollevò il capo reclinato e lo osservò senza dire nulla. Tremava ancora, ma nonostante ciò si alzò e si diresse verso il compagno. Era mosso da una tenera commozione, cui si aggiungeva un impulso nuovo, tanto potente quanto fragile – proprio come quel giovane che lagrimava con gli occhi sbarrati, dinnanzi a lui.
«Io così non ce la faccio,» biascicò Alexander. «Vedere te in questo stato, rispecchiarmi nelle tue lacrime, sapere che tutto ciò non può che degenerare. - La sua voce vacillò; dovette quindi deglutire più e più volte per riuscire ad andare avanti. - Sapere che in me, da qualche parte, esiste una scintilla esplosiva, un animale indomabile che freme in me con la stessa irruenza di un uragano, è intollerabile.»
Jim rimase immobile, silenzioso.

«Dentro di me, sale, cresce, non mi dà tregua. La solitudine, Jim...».

Accadde in un istante. Jim si alzò di scatto e caracollò in avanti, come in trance - le lacrime ancora fresche sul suo volto -. Si aggrappò alla veste di Alexander, trascinandolo giù con sé e gettandosi sulla sua bocca - quasi con violenza, quasi con dolcezza. Fece scivolare la lingua fra le sue labbra con foga, schiacciandolo sotto al suo corpo deperito. Alexander, preda dell'irrazionalità, affondò la punta delle dita nelle spalle ossute di Jim, premendoselo addosso anche quando, ormai, non c'era più spazio fra i loro petti sussultanti. Entrambi lo sapevano: non vi era la minima ombra di erotismo in quel bacio; era, al contrario, lo scoppio di una necessità che, inaspettatamente, era confluita in un sentimento più grande di loro e più umano di quanto potessero immaginare. Se davvero ognuno di loro incarnava la mera metà di un essere umano, quel bacio fu il semplice, inevitabile ricongiungimento delle due parti.
Alexander parve a malapena accorgersi dei capelli di Jim che ricadevano sul suo viso, creando una sorta di quinta, che li estraniò per qualche interminabile istante dallo squallido scenario entro cui si svolgeva quel miracolo. Avvertiva solo le detonazioni del suo cuore impazzito, che batteva contro alla cassa toracica, come se volesse uscire ed essere, finalmente, libero. Le loro mani si cercavano convulsamente, sospinte da movimenti goffi. Si trovavano e, di nuovo, si separavano: era proprio questa frenetica ricerca a renderli paghi, innamorati dell'idea di aver finalmente posto un freno a delle mute preghiere cui mancava il mittente ed aver trovato la salvezza, seppur fugace, in un gesto di così facile attuazione.
Fu Jim a scostarsi per primo. Il suo volto rimase inespressivo, solo le labbra, rosse più del solito, svelavano il loro segreto. Alexander, tuttavia, seppe che la sua emozione coincideva con la sua: era il battito del suo cuore a fugare ogni dubbio.
«Non possiamo continuare così, Dio; hai ragione. - Disse Jim, all'improvviso. - Ma l'unica cosa che può alleviare le nostre pene é la consapevolezza che non affonderemo da soli.» Dopo aver detto ciò, Jim, ancora ricurvo sul compagno, sorrise.
Alexander distolse lo sguardo e non rispose. C'era troppo fermento in lui, che non gli consentiva di ascoltare ancora, ancora e ancora la solita ingiusta condanna, senza percepire il malessere esplodergli dentro. Quel contattato, quell'incredibile rivelazione, aveva risvegliato in lui la consapevolezza che l'umanità, nel suo piccolo, poteva grandi cose - e sì, i mezzi erano infiniti, a partire dalla semplicità di ogni gesto -.
«Non é l'unica», sussurrò.
Jim parve interdetto. Aggrottò le sottili sopracciglia e rimase in attesa.
«Non é l'unica», ripeté Alexander. Ristabilì il contatto visivo, allungando le dita a sfiorare la schiena di Jim, che fremmette leggermente. Alle dita si sostituì l'intera mano, che scese lungo la schiena, fino a raggiungere il fianco, con una dolcezza che ad entrambi parve fuori luogo, ma che nessuno dei due rinnegò. Jim non si ritrasse; al contrario, socchiuse gli occhi, sentendosi pervadere da un delicato languore.
«Dio, che cosa...?», mormorò.
Alexander assunse un'espressione cupa. Le sue dita si strinsero sul corpo del compagno, senza tuttavia fargli male. Eistò qualche istante, chiedendosi se, in fondo, ciò che stava per dire avesse o meno un senso. Ma non importava; non importava più. C'erano troppi se, troppi ma, troppi forse nelle loro vite, che rapidamente si stavano inaridendo. Tutto il resto, d'altro canto, languiva in uno stato di vacuo appagamento, un involucro vuoto che godeva nel percepirsi tale. Era ora di smetterla con quell'assurdo gioco del gatto e del topo in trappola.
Forse era un'insensatezza, forse era solo l'ennesimo delirio, ma Dio ci credeva veramente e questo bastava a conferirgli tutto il senso di cui aveva bisogno: «Noi fuggiremo da qui, Jim.»
Alexander non poteva rassegnarsi alla semplice evidenza. Non lo aveva fatto quando aveva ucciso Philip - nonostante le terribili immagini di quel giorno lo perseguitassero ancora, seppur ridotte a brandelli - e non lo avrebbe fatto nemmeno in un momento così tragico.
Eppure l'unica reazione di Jim fu quella di scostarsi, come se fosse più che altro disgustato – o forse solo impietosito -. I suoi occhi, ancora meravigliosamente brillanti, rimasero inespressivi, in uno scintillio di freddo compatimento che sferzò la notte.
Ma non tutto era perduto, non tutto era perduto. Non ancora, almeno.

Ed in religioso silenzio attesero il sorgere del mattino.

Edited by Aborted_666 - 19/4/2012, 17:17
 
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Aborted_666
view post Posted on 19/4/2012, 16:14




- Capitolo IV: «Carne, sangue e nervi» -


Se non si fosse semplicemente trattato di un dato di fatto, Alexander non ci avrebbe dato peso. Eppure ogni elucubrazione si rivelava sterile, dal momento che non risvegliava in lui alcuna reazione.
Il cibo, per quanto poco fosse, non lo saziava; il sonno non lo riposava; la veglia non lo stancava.
Viveva in una sorta di immobile, autoreferenziale apatia, cui non riusciva ad attribuire né un inizio, né – per assurdo - un durante. Quello stato perdurava dalla mattina, ma non poteva, in ogni caso, escludere che ristagnasse nella sua mente dal giorno precedente, o addirittura da quello prima – o magari esisteva da sempre, latente, acquattato nel punto cieco del suo cervello obnubilato - come una pozza putrida ed infetta che emanasse esalazioni tanto dannose, quando inodori ed incolori.
Sapeva che stava avvenendo troppo in fretta, qualsiasi fosse la ragione di quello status, eppure accettava tale consapevolezza con un'innaturale irrazionalità: un ovvio controsenso, o magari la mera assenza di esso.
C'era solo un punto fermo, in quell'attimo strappato alla temporalità e alla logica, eppure in quella delirante situazione non riusciva ad attribuirgli un nome: era un semplice ammasso di carne, sangue e nervi.

Jim aveva capito che c'era qualcosa di terribilmente sbagliato in Alexander, quella mattina, ma non poteva certo immaginare che lo stadio cui era pervenuto il compagno fosse già così grave. Le droghe, prima ancora che entrambi potessero farsene una ragione, avevano colpito le sinapsi di Alexander, alterandole. Probabilmente il processo in atto era ancora in fase di reversibilità, ma Jim non sapeva per quanto e con quali modalità, tanto quanto non sapeva se l'ipotesi messa in campo fosse o meno veritiera.
Poteva solo osservarlo mentre giaceva ricurvo sulla branda, lo sguardo perso chissà dove, gli occhi spalancati, pieni di lacrime onde evitare che si seccassero, silenzioso ed immobile. Pareva morto, morto cerebralmente: non poteva sapere che dentro la mente dell'amico stava avvenendo la grande battaglia fra coscienza ed oblio - ma forse, in fin dei conti, era meglio così.
Jim era terrorizzato, più di quanto osasse immaginare. Era animato da una paura arcana, profonda, inspiegabile, che gli impediva di compiere il minimo movimento ed anche solo di concepirne l'attuazione. Il suo compagno pareva un'usurata marionetta dagli occhi splendenti, i cui fili si perdevano nella baluginante luce del mattino, che cominciava ad inondare la stanza in rivoli pallidi. Conosceva quei sintomi ed al tempo stesso gli erano profondamente estranei.
Quanto tempo passò da quando aveva cominciato a fissarlo impietrito? Un'ora, forse due. Probabilmente sarebbe morto di inedia, se il chiavistello non avesse cigolato. Jim fece in modo di farsi trovare rilassato, quando gli infermieri fecero capolino dallo stipite della porta ormai aperta; i loro volti, nell'osservare l'uomo dallo sguardo assente riverso sulla branda, parvero compiaciuti, ma Jim non poté dirlo con certezza. Tentò di scrutare i loro cambi di espressione, di decodificare i ghigni ed i movimenti, di comprendere i bisbigli, ma nulla riuscì a colmare il vuoto che il dubbio aveva creato.
Il fatto che l'iniezione venne fatta a lui soltanto, in ogni caso, gli diede le conferme che cercava: Alexander era sulla soglia dell'overdose, o comunque ci stava andando vicino, molto vicino. La droga evidentemente stava agendo bene, dunque Dio era...
...«Un soggetto recettivo». Una cavia da gustare, non da guastare. Proprio quello che ci si aspettava da uno come lui, tutto parole e pochi fatti.
Quante volte aveva sentito quelle frasi, durante la sua permanenza in quell'Inferno? Perfino il tono era lo stesso, privo di qualsivoglia inflessione: ogni sillaba era scandita con maniacale periodicità, parevano addirittura gustarle tra lingua e palato, come caramelle deliziose che si sciolgono in bocca e lasciano quel retrogusto di appagamento dietro di sé.
«Processo lineare, buona risposta da parte del soggetto. - Continuavano i due infermieri, rivolgendosi l'uno all'altro. - Stadio-β in avviamento.». Appuntarono tutto su un blocco di carta, annuendo soddisfatti verso un interlocutore immaginario.
Jim divenne granitico.
Nella sua mente, per quanto deviata e bacata fosse, stazionavano sotto forma di immaginari archivi mnemonici tutte le sentenze cliniche dei loro carnefici; serviva, in qualche modo, a tranquillizzarlo, poiché eliminava quell'angoscioso senso di attesa che non riusciva a sopportare. Eppure l'ultima conversazione dei due infermieri era un allineamento di spaventose incognite: non aveva la più pallida idea di quale fosse l'argomento, né tanto meno il senso. Il panico lo colse impreparato.
Tentò di raccogliere disperatamente più dati possibili in poco tempo - e di respirare, nel mentre -, si affaccendò per rielaborarli ed estrapolare la più convincente formulazione di una risposta. Se prima aveva paura, ora era letteralmente atterrito, sull'orlo di una crisi di nervi e minacciato da violentissimi capogiri. Il suo cuore batteva così forte da sembrare in procinto di accrescere le proprie dimensioni a dismisura, togliendo spazio ai polmoni e a tutto il resto - era possibile? -. Sentiva solo il rimbombo del miocardio in tutto il corpo, come un tamburo tribale che annunciava l'inizio di una guerra. Soffocava. Non respirava. Soffocava. Ma la sua disperazione, nonostante tutto, lo mantenne cosciente, quel tanto che bastava per tenere gli occhi aperti.
Poteva, si chiese, un'insulsa constatazione farlo precipitare nella più nera auto-flagellazione psichica? Con quale diritto quelle persone si arrogavano il diritto di fingersi déi scesi in terra? Di Dio ce n'era già uno ed era certamente umile, era carne ed ossa, vittima del deperimento fisico e psicologico. Nonostante ciò il suo tocco era caldo e rincuorante, la sua bocca violenta e carnosa, il suo profilo fragile e virile; aveva un'ombra ed essa rispecchiava l'oscurità che risiedeva nella sua anima. La sua voce, profonda e vibrante, sovrastava il silenzio, il silenzio, l'orribile, spaventoso silenzio. Il suo Dio era lì, accasciato sul letto come un sacco vuoto, eppure vivo - processolinearestadioβ.
Organizzò un ragionamento se non altro plausibile e se lo ripropose più volte nella mente come una litania: Alexander, dunque, era un soggetto clinicamente fecondo - “Processo lineare”? - ed in poco tempo aveva superato lo Stadio α - il suo stadio. Era credibile? Optò per uno speranzoso sì.
Lo stadio β, dunque, rappresentava il prolungamento del processo lineare, la tacca successiva, ragionando in termini di vera e propria successione consequenziale. Era logico e poteva dimostrarlo ricollegandosi alle poche, vaghe reminiscenze di greco antico che possedeva. Stadio a e Stadio b, solo descritti con una finezza più simile alle leggi fisiche.
Ma quanti stadi contava quel delirio? Non poteva stabilirlo con la semplice logica o intuizione che fosse. Se fossero stati tre, Alexander si sarebbe collocato al centro. Ma se fossero stati...
All'improvviso il brusio mentale tacque. Un singhiozzo, un sollievo - percentualmente basso, ma...
Alexander aveva mosso un poco il capo. Aveva il respiro raschiante, ma era cosciente. Jim accantonò tutto: la paura, l'ansia, la rabbia, la speranza, la formulazione di teorie: la razionalità in tutto e per tutto. Si portò una mano alla bocca per l’incredulità e lo stupore, quasi non ci sperasse più. Le sue lunghe e tormentate riflessioni parevano sottintendere l’irrimediabilità della situazione, come se non ci fosse mai stata un’alternativa (tuttavia continuava a ripetersi che era solo questione di tempo, non riusciva a non pensarci): si vedeva già solo, in quella cella buia e pregna d’umidità; poteva avvertire il suo alterego distrutto osservare la sagoma immobile ed inespressiva del compagno di sventura, vinta fin nelle profondità della psiche, straziata nell’intimo della sua esistenza e strappata al suo abbraccio bisognoso. Riusciva a sentirlo quel freddo, l’umanità che scemava inesorabilmente, proprio come nelle sue remote e temibili fantasie, proprio come i suoi miraggi onirici, proprio come la sua follia, che, per un solo attimo, aveva quasi scordato: no, non credeva nei miracoli. Il suo Dio non risanava gli afflitti, ma nemmeno affermava di poterlo fare; stava tutta lì la differenza. Il miracolo, in quel momento, era di poter osservare il suo sguardo denso di angoscia ancora una volta e di potercisi perdere dentro. Domande senza risposta, la forza di porsele ancora.
Avrebbe voluto lasciarsi schiacciare dal peso di quell'attimo e perdersi nei dolci meandri dell'incoscienza, ma si limitò a versare innumerevoli lacrime.
Alexander sbatté più e più volte le palpebre, quasi a voler constatare che l’immagine che gli si presentava dinnanzi appartenesse alla realtà. I muscoli del suo volto sembravano fuori controllo, tremanti e frementi, seppure impercettibilmente. Eccola, era la sua quotidianità e, per quanto buia fosse, sapeva che non poteva essere più oscura dei suoi pensieri. Era tornato.
Rivolse un’occhiata a Jim, che ancora lo fissava con la mano sulla bocca e gli occhi pieni di lacrime, seduto sul letto, con le ginocchia all’altezza del volto.
Alexander si tirò su, facendo perno sulle braccia. Si passò la lingua sulle labbra secche e crepate, inspirando quanta più aria possibile.
«Carne, sangue e nervi», sussurrò. Come poteva definirli? Ricordi? O semplici pensieri che riaffioravano dall'incubo? Qualsiasi fosse la reale definizione, quella frase era sfuggita al suo controllo, forse perché ciò era inevitabile, forse perché si sarebbe dimostrata necessaria, forse perchè, semplicemente, gli girava il culo di dirla.
Jim non capì, ma non chiese nulla. Attese, semplicemente, il seguito, facendo scivolare la mano dalla bocca al petto, auscultando il battito impazzito del suo cuore, stringendo fra le mani la tunica logora.
«Perfino laggiù… - Continuò Alexander, - tu, nei mie incubi, perfino laggiù, eri caldo, vivo, umano».
«Stai attendo, Dio. – Mormorò flemmatico Jim, dopo qualche attimo di silenzio. – Quel posto prevede un biglietto di sola andata. Se tu ci finissi ancora…». Tacque, gli occhi spalancati come un posseduto, i tratti del volto tesi. Aveva ignorato l'affermazione di Alexander, o magari l'aveva riposta accuratamente nell'archivio ed ivi sarebbe rimasta come preziosa reliquia.
Infine, digrignando con veemenza i denti, aggiunse: «Se vai laggiù, strazierò il tuo corpo e ti riporterò qua, anche se dovesse essere l’ultima volta. Sangue, carne e nervi».
Alexander trasalì. Certo che l'aveva ascoltato, non avrebbe dovuto dubitare del contrario. Non come avrebbe dovuto probabilmente, ma cominciò a tremare tutto, avvicinandosi al bordo del letto e sporgendo le gambe oltre il sottile materasso. Il contatto con il pavimento gelido aumentò quella scarica di adrenalina.
«Dillo ancora», bisbigliò, il corpo in fermento, come preda di un orgasmo. «Sì, ripetilo, in fretta, con foga».
Pareva il monologo di un dissennato, ma Jim avvertì qualcosa di simile all’eccitazione arrampicarglisi lungo la spina dorsale, sciogliersi nello stomaco come una medicina indigresta e diffondersi per tutti i vasi sanguigni, confluendo nel cuore: i battiti fuori controllo. Con la voce mossa da un’emozione profonda, ripeté lentamente: «Carne, sangue e nervi». La mano, dal petto, scese verso il ventre.
«Potrebbe essere l’ultima volta», disse Jim. «Fottiti, dannazione».
Alexander non chiese spiegazioni, perché sapeva quanto orribili sarebbero state. Non voleva sentire nulla, se non il fruscio delle coperte e dei vestiti ed il battito del suo cuore. Si alzò con uno scatto e si avvicinò a Jim. Tentava di apparire contenuto, ma il tremore del suo corpo, il frenetico sfarfallio delle sue ciglia, tradivano il suo intento.
Per l’ultima volta ribadì “carne, sangue e nervi”, mettendo il risalto la prima parola, quasi fosse ossessionato da essa e avesse bisogno di palesarlo a mo’ di avvertimento. Ma s’era instaurato un tacito accordo tra i due: quella litania aveva sfiorato le labbra di entrambi, vibrando fin nelle profondità del loro essere, nella coscienza e nell’anima.
Pulsioni carnali, esternazione di voglie sessuali incontrollabili, respiro pesante, stretta allo stomaco, bisogno viscerale.
Animali.
Istinti, desiderio, passione, ossessione. Carne, carne, carne.
Animali.
Si gettò sul corpo di Jim con un’irruenza malcelata e si fermò quando il suo viso fu a pochi centimetri da quello del compagno.
«Ho paura. Non voglio pensarci, - scandì. – Non voglio pensare a niente, se non a…» .
Niente parole dolci, niente bisbigli confortanti. Non era richiesto altro, se non quello che già era dinnanzi ai loro occhi: il miracolo della carnalità, nella sua essenza più grezza.
Fu Jim, dunque, ad annullare la misera distanza tra i loro visi, mordendo il labbro inferiore di Alexander. La miccia era ormai accesa, c’era solo da aspettare il riverbero dell’esplosione, la devastazione che ne sarebbe conseguita.
Alexander afferrò la testa dell’altro, spingendo con foga la lingua tra le sue labbra dischiuse. Quel bacio sapeva di sesso, oltre che di sangue. Guidarono le mani l’uno dell’altro sotto alle vesti - pelle contro pelle, unghie sulla carne -, senza mai interrompere quel bacio isterico.
Il contatto dei due corpi, quando ormai le tuniche vennero abbandonate sul pavimento gelido, riuscì a scatenare l’inferno nelle loro menti. Era una sensazione indescrivibile, un’emozione inaspettata, che li fece gemere senza contengo l’uno nella bocca dell’altro. Potevano addirittura avvertire il sangue che inondava il tessuto spugnoso dei loro falli – e contare le pulsazioni in aumento -, mentre l’eccitazione cresceva vertiginosamente. Jim scese con le labbra sul collo dell’altro; la barba solleticava la sua pelle, ma non gli interessava affatto. Le sue unghie graffiavano la schiena di Dio e scendevano verso le natiche scarne: quando raggiunse la sua meta, le strinse fra le dita, schiacciandoselo addosso – anche a costo di soffocare. Alexander, intanto, aveva raggiunto il pene turgido del compagno. Lo sfiorò, sentendosi pervadere da una sensazione di violento, morboso appagamento. Dentro il suo petto esplodeva un’emozione così intensa e travolgente, da doverla sfogarla a suon di immotivate bestemmie ed ingiurie, sussurrate a fior di pelle, bisbigliate al vento e rivolte forse all’oscenità insita in quel godimento esagerato – puro, paradossale, delizioso nonsenso. Cominciò a masturbarlo, stingendo tanto da costringerlo ad urlare di dolore e piacere insieme. Il ritmo folle che stava assumendo quell’amplesso, invero, dimostrava quanto esso fosse necessario ed ovvio: pareva che i due uomini avessero da sempre conservato tutte le loro energie solo per quello, come un disegno divino dalle caratteristiche sconcertanti, impreziosito da qualche apporto personale.
Jim venne nella mano di Alexander; buttò la testa indietro e gemette fra i denti, quasi avesse avuto paura di essere udito. Prima ancora di avere il tempo materiale per riprendersi, spinse l’altro indietro e gli impose con la forza di crollare supino sulla branda. Quando Alexander osservò il suo volto in cerca di una spiegazione, vide che i suoi occhi erano umidi e grandi, scuri ed imperscrutabili; gli sembrarono i tasselli sbagliati di un mosaico apocrifo: bellissimi, eppure privi di espressione. Ma le sue gote rosa, le labbra turgide e rosse, il sudore sulla fronte, il petto in movimento… Quelli erano elementi sufficienti. Aveva imparato a capire che dietro ad occhi inespressivi, spesso si celava la paura – specialmente nel caso di Jim – ed allora tutto si capovolgeva, finiva sottosopra come una clessidra che viene rimessa in moto, assumeva un senso tutto suo; l’evidenza spesso rappresentava la mera custodia di qualcosa di molto, molto più prezioso. No, gli occhi non erano lo specchi dell’anima, ma solo specchi mostranti ciò che si vuole vedere in una persona – e dunque che cosa voleva vederci Alexander? -.
E quegli occhi continuarono a scrutarlo, anche mentre Jim abbassava il volto per raggiungere il suo inguine e stringere fra le labbra il suo organo, tanto teso da far male.
Mai, pensava Dio, mai emozione fu più grande, né più inspiegabile. Nemmeno le urla di supplica di Philip, nemmeno il tanto atteso colpo di grazia, nemmeno il sangue della vendetta ancora caldo sulle mani. C’era qualcosa, nel meccanismo zoppicante di quell’attimo, che non aveva mai vissuto, qualcosa che non aveva mai immaginato, qualcosa che non aveva mai neppure sperato.
Stava impazzendo, eppure il godimento era troppo immenso ed appagante perché ne avvertisse la minaccia incalzante. Stava impazzendo e non solo non aveva un dio a cui rivolgersi, ma non ne sentiva nemmeno la necessità. Tutto era completo, in quel momento; sudicio, guasto, ma completo, come una bolla di sapone che naviga a mezz’aria e sembra sempre che stia per scoppiare.

E accompagnato da un simile pensiero raggiunse l’orgasmo, il più dirompente orgasmo della sua vita.

Edited by Aborted_666 - 19/4/2012, 22:48
 
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Aborted_666
view post Posted on 22/4/2012, 14:25




- Capitolo V: «Merda sei e merda rimani» -


Jim ci a aveva riflettuto tutta la mattina e buona parte del pomeriggio: accantonare un problema non significava affatto fingere che esso non esistesse. Era solo un modo per prendere un grande respiro e riacquistare un minimo di lucidità, non una grama dimostrazione di negligenza.
Era ben lungi dall’aver dimenticato il referto clinico degli infermieri, così come non poteva ignorare ciò che i suoi stessi occhi avevano potuto osservare. Come se non bastasse, dalla sua mente riaffioravano vaghe rimbembranze di un passato morto e sepolto e che avrebbe preferito rimanesse tale. Lo sgradito fenomeno si manifestava sotto varie forme: flash, immagini, sprazzi di discorsi, immotivati ricollegamenti, ovviamente saltuari, con situazioni che credeva irrimediabilmente cancellate dai suoi ricordi e dunque la resto del mondo.
Sebbene in quel momento Alexander fosse cosciente – anche se innegabilmente debole - e lo guardasse di sottecchi dalla branda su cui era disteso, la mente di Jim era in subbuglio e valutava morbosamente le possibili manifestazioni di ogni singolo sintomo, o per lo meno ciò che poteva sembrarlo.
Se ne stava rannicchiato sul letto, dando la schiena al muro, con gli occhi socchiusi; vigile, eppure perso in elucubrazioni che assorbivano buona parte delle sue traballanti facoltà mentali.
Ripensare a ciò che era accaduto il giorno precedente, certo, non lo aiutava a pensare con lucidità. Eppure non poteva fare diversamente: c’era un dato che gli sfuggiva e che – ne era certo – racchiudeva la chiave di svolta, nonché la risposta. Qualcosa che risiedeva nella sua mente, come una labile consapevolezza, in bilico tra raziocinio e piena emotività, e che, inspiegabilmente, emergeva solo nell’attimo in cui si focalizzava sull’esplosione erotica che aveva consumato col suo compagno. Forse si trattava di un bruciante ricordo, forse di una deduzione mutilata di nesso logico, forse di una mera evidenza che sfuggiva alla sua attenzione. Qualsiasi cosa fosse, non gli dava tregua.
Alexander intanto continuava a gettargli occhiate fiacche, la testa a penzoloni e lo sguardo offuscato: quella mattina non era sfuggito all’iniezione ed il suo volto pallido ne era la prova.
Il silenzio che li divideva pareva assorbire la temporalità, divenendo un grottesco conto alla rovescia, che nessuno dei due riusciva semplicemente ad ignorare. Era un’attesa, una delle peggiori, e Jim odiava con tutto se stesso le attese. Era insopportabile, angosciante, tanto da spingere Jim, pur privo di una vera e propria motivazione, a rivolgersi ad Alexander: «Cosa vedi?», fu la criptica domanda che gli pose.
L’altro faticosamente si alzò a sedere. Aggrottò le sopracciglia, rimanendo inizialmente in silenzio. «Vedo te», rispose infine, senza premurarsi di nascondere la perplessità che lo animava.
Jim scoppiò in una bassa, breve risata. Parve sollevato e divertito al tempo stesso, ma non aggiunse nulla che potesse fugare l’ambiguità che si celava dietro alla sua domanda. Era ovvia, in effetti, la direzione verso cui voleva indirizzare la conversazione: annullare il silenzio, verificando, al tempo stesso, che dietro allo sguardo fiacco di Alexander non si celasse una seconda immersione nell’oblio; Alexander si limitò a tacere, conciliante, continuando a scrutare il viso dai tratti spigolosi dell’altro in cerca di un cenno che tradisse i suoi pensieri.
Ma Jim, in quell’istante, non ci fece caso. Conviveva con un’opprimente senso di angoscia fin dalla sera del giorno prima che lo assorbiva quasi totalmente, ed era consapevole del fatto che tale stato sarebbe perdurato fino al successivo incubo onirico, suo o dell’amico; l’attesa, certo, non lo aiutava. Sentiva crescere nella sua interiorità una sorta di horror vacui che mai, mai – per quanto potesse ricordare – aveva provato: era come sentirsi dentro ad un buco nero ed al tempo stesso avvertirne la presenza dentro di sé; come essere trascinato da forze misteriose e discordanti in due direzioni diverse contemporaneamente; come covare lo spinoso uovo del demonio, pregando Dio nel mentre.
«Senti, - domandò all’improvviso Jim. – Nell’alfabeto greco, che lettera viene dopo alla β?»; la sua voce era spezzata da un tremore malamente dissimulato.
«La γ, la δ, la ε e via discorrendo, - rispose Alexander. – O almeno credo». No, Alexander sapeva perfettamente che Jim non parlava mai a sproposito e che ogni domanda, così come ogni affermazione, era finalizzata a qualcosa di molto più significativo e pregnante della domanda stessa. Ma non riusciva a capire, per quanto ci provasse, cosa rappresentasse quel qualcosa. Parlava, ma al tempo stesso sembrava eludere le questioni principali e gli argomenti spinosi, tanto quanto una chiara formulazione di un discorso; non voleva farsi capire e ciò gli risultò chiaro.
Jim, di nuovo, gli lanciò un’occhiata indecifrabile. Era pallido, tremava, ma – dopo qualche attimo di silenzio – ricominciò a parlare, quasi fosse necessario che uno dei duo lo facesse: «Pensavo che ieri mi avresti divorato», bisbigliò. Non c’era traccia di malizia nella sua affermazione; pareva piuttosto un argomento transitorio, mutilato di un vero e proprio interesse pragmatico. Sì, sembrava che stesse sondando il terrendo, alla ricerca di qualcosa.
«Avrei voluto», rispose Alexander, non ritenendo necessario andare oltre. Ormai era seduto compostamente sul letto, con la schiena addossata al muro e le gambe distese, che sporgevano oltre il bordo della branda. La testa gli girava un poco, ma lo ritenne sopportabile e continuò ad osservare l’interlocutore con un’espressione accigliata.
Jim parve riflettere. Si passò una mano sul viso smunto, passandosela poi fra i capelli arruffati. Ad un’occhiata disattenta, poteva sembrare deluso della risposta, ma Alexander capì che, al contrario, non l’aveva nemmeno ascoltata.
«Dove vuoi arrivare?», domandò dunque Alexander. «Smettila con questa farsa, parla chiaro e vediamo di capire qual è il problema». Era irritato e stanco, oltre che vagamente preoccupato. Non aveva la minima voglia di star dietro agli assurdi sproloqui dell’altro, né tantomeno di cavargli le parole fuori dalla bocca con le pinze.
«Nessuna farsa, - biascicò Jim, chiudendo gli occhi. – Vaffanculo tu e le tue paranoie».
Alexander, in quell’istante, capì di aver perso le staffe prima ancora di rendersene conto. Scoppiò a ridere, una risata isterica ed indomabile.
«Paranoie? Paranoie?!». Bestemmiò sonoramente, prima di alzarsi in piedi – ignorando il capogiro, che peggiorava ad ogni minimo movimento -. «Stammi a sentire, stronzo figlio di puttana: navighiamo nella stessa merda e tu vieni a dire a me che sono paranoico? Qual è il tuo problema?!».
Jim parve riscuotersi da una trance. Alzò di scatto il volto e gli lanciò un’occhiata intensissima, quasi commossa. Non lo stava ascoltando, assolutamente, e Alexander se n’era accorto fin da subito: si era accorto di come aggrottava le sopracciglia, di come si passava le dita sul setto nasale, di come arricciava le labbra.
«Carne, sangue e nervi, - sbottò Jim. – E’ la loro trappola che gli si ritorce contro!». Il suo viso esprimeva una gioia incondizionata, quasi quell’affermazione rappresentasse il lampo di genio ch’era rimasto latente per troppo tempo.
Il compagno tentennò per diversi secondi. Era arduo stabilire quanto di vero e realmente ponderato ci fosse nelle parole dell’altro, ma d’altro canto gli venne spontaneo domandare: «Che cosa?».
Jim si sollevò in piedi di scatto. Gli si avvicinò con irruenza e gli afferrò le spalle; la sua stretta era violenta, ma non dolorosa. La gioia aveva lasciato il posto ad una cupa serietà, che destabilizzò Alexander per diversi secondi.
«Stammi a sentire, - disse. Fece una lunghissima pausa, come se volesse accertarsi che l’attenzione dell’altro fosse alta a sufficienza, ma forse anche per sondarne l’espressione stupita. Infine, dopo aver fatto un lungo sospiro, riprese a parlare: – L’immersione nell’oblio è guidata dalle loro droghe. Non sono sostanze normali, non si limitano ad alterare le sinapsi, ma le manipolano interamente. Non so come, non ne ho idea, ma nella tua testa c’è parte del loro progetto: sei talmente fertile dal punto di vista clinico, da apparire potenzialmente dannoso per loro (ma ovviamente non lo sanno, non ancora). Dio, non so cosa ci sia in te, ma dev’esserci stata una reazione alle sostanze che ci fanno assumere. Quando ti sei svegliato dall’immersione nell’oblio, tu hai detto “carne, sangue e nervi”. Ragiona, se-», Jim venne interrotto.
«Come fai a sapere queste cose, Jim? Chi te le ha dette?! La mia affermazione non ha alcuna rilevanza, era una semplice esternazione di un pensiero che ho avuto durante un sogno», ribatté Alexander. Era sbigottito, spaventato e confuso; non sapeva se divincolarsi da quella stretta o ascoltare ciò che il compagno aveva da dire, col rischio di peggiorare la propria instabilità emotiva e psicologica. Nel dubbio rimase fermo, immobile, aspettando che l’altro dicesse qualcosa.
«No, Dio. Il tuo status alterato, in quel momento, era manipolato da loro; non era un sogno. Niente di ciò che hai avvertito era casuale», aveva evidentemente eluso le prime due domande, ma Alexander, in quell’istante, non ci fece caso. Ciò che Jim gli stava dicendo era incredibile. Si zittì ed aggrottò le sopracciglia folte, in attesa di un seguito.
Jim sorrise, ma fu piuttosto una reazione involontaria dai risultati agghiaccianti: era freddo, quel sorriso; non trasmetteva altro che un crescente nervosismo malcelato. Allentò la presa sulle spalle di Alexander e fece un profondo respiro.
«Ora ascoltami senza interrompermi. Ho solo due cose da dirti e sono fondamentali. – Tacque per pochi secondi, incatenando lo sguardo a quello dell’amico, prima di proseguire: - La prima è un semplicissimo dato di fatto: le droghe che ci iniettano sono composte di microrganismi parassitari viventi – o quasi –; il loro nome è ACI, alteratori della coscienza individuale. Tu sai che nei globuli rossi è contenuta l’emoglobina; a sua volta, nell’emoglobina c’è il ferro, a cui si lega l’ossigeno che viene inviato al cervello. Questi organi parassitari scollegano, per così dire, il 30-35% dell’ossigeno dal ferro e prendono il suo posto (ecco spiegati i continui capogiri): sono dunque inviati al cervello ed ivi stazionano, manipolando le sinapsi e non solo». Si fermò, cercando negli occhi di Alexander una qualsiasi reazione che lasciasse intendere il suo stato d’animo; ma quello rimaneva fermo, rigido e pallido, con le sopracciglia aggrottate e le labbra serrate, quasi non volesse lascarsi sfuggire nulla - non prima della fine del discorso, almeno -. Il tempo sembrava sospeso e l’aria, quasi fosse divenuta più densa e rovente, gravava sulle loro teste come un presagio di morte.
Era inutile attendere oltre, dunque Jim annuì flebilmente e continuò: «La seconda constatazione che ho da fare riguarda una mia teoria: le immersioni nell’oblio sono status alterati veicolati da questi ACI; come ti dicevo prima, ciò che provi, senti e vedi durante quei momenti, è frutto della manipolazione di queste sostanze. Loro non sono ancora in grado di sapere cosa provi, senti e vedi, posso semplicemente registrare il funzionamento, in percentuale, degli ACI: il resto rimane nella tua coscienza – o, per meglio dire, incoscienza - e da lì non si muove. Carne, sangue e nervi: Stadio α, stadio β, stadio γ. I recettori sono entrati in circolo, ma non hanno ancora portato a compimento l’alterazione delle tue sinapsi nervose».
Alexander tacque, incapace di dire o pensare una qualsiasi cosa. Dentro di sé avvertiva solo il rimbombo sordo del suo cuore, che martellava disperatamente nelle orecchie. Le domande che intasavano la sua mente, in quel momento, erano innumerevoli, o addirittura infinite, e si confondevano fra loro in un frastuono indecifrabile, in un groviglio caotico e disordinato, tramutandosi in un unico boato che si fondeva col battito fuori controllo del suo miocardio: quando raggiungerò lo stadio finale, che ne sarà di me? Come fai a sapere queste cose? Perché su di te stanno agendo con lentezza e su di me tutto sta avvenendo ad una rapidità disarmante? Chi solo “loro”? Che cosa vogliono?
Chi sei tu?
Nel riflettere, non si era reso conto di barcollare: si sentiva oppresso fisicamente da una forza invisibile che lo strattonava come una pezza vecchia ed indesiderata.

Articolò un lungo sospiro, che uscì frammentario, e dalla gola gli sfuggì un singhiozzo di pianto; ma non cedette. Rimase immobile, stoico, anche se dentro di sé si sentiva morire. La voce non voleva uscire, come se un’entità maligna la stesse trattenendo con la forza, all’altezza del plesso solare, impedendole di defluire dalle labbra aperte. Si portò una mano al petto, per auscultare il suo cuore: sì, batteva. Batteva disperatamente, come se non ci fosse più un domani.
Quando finalmente l’angoscia si placò un minimo, si passò la lingua sulle labbra secche e tentò di idratare con la saliva la gola riarsa. In assenza di logica e di coerenza, il concetto di temporalità si era fuso col vuoto che aveva dentro, divenendo un immenso baratro buio ed irto di zanne, che inghiottiva la sua anima fatta a pezzi.
Che cos’era, se non una minuscola particella vagante, in una dimensione decisamente troppo grande per lui? Si sentì miserabile, impotente, deriso ed umiliato dinnanzi alla sua stessa coscienza, quella che ancora si ostinava a sopravvivere e che si aggrappava alla vita con le unghie e coi denti. Ora sì che capiva tutto: merda sei e merda rimani, senza la minima possibilità di redenzione. Non c’è spazio per i deboli - è la legge della giungla -, devi solo lottare per far valere il tuo diritto di essere umano. Ma nessuno aveva mai puntualizzato che, in un mondo così maniacalmente intasato di regole e giustizia, non esistesse alcuna meritocrazia, né tanto meno una possibilità di scelta; te lo sputano dall’alto come una sentenza indesiderata, eppure ineludibile, che ti crolla addosso insieme al mondo intero, riducendoti in una poltiglia informe: questa è la giustizia, se non ti va bene crepa in un fosso mangiando i tuoi escrementi.
E a quel punto non sei nemmeno degno di ricoprire il ruolo di homo sapiens a metà: ti tocca quello dell’animale, perché è l’unico che si confà a te, o almeno così ti hanno detto.
Sii umile, china il capo, prega se ti va, conduci un’esistenza moderata se ti fa sentire meglio; non uccidere, non rubare, non desiderare la donna di altri, non bestemmiare, bla bla bla.
Tanto alla fine tutto ciò non è altro che un mero palliativo e si ridurrà in cenere con te, quando non servirai più.

E ciò accadrà presto, credimi.

Alexander si guardò intorno - occhi spalancati, espressione da folle a deformargli i tratti del viso -, e rise, rise con quanta più disperazione poté; dopodiché rise di nuovo. Ed alla fine tacque, accasciandosi a terra, in ginocchio; tacque con tanta perizia, che per un attimo parve una scultura di marmo coperta di sudiciume e stracci, effige di un dolore morale più grande di quanto si possa descrivere a parole ed anche solo immaginare. Tutto, all'improvviso, gli parve sterile, vuoto, inutile.
Jim trattenne il fiato, colpito nel profondo da una sofferenza atroce; allungò una mano per sfiorargli il volto, ma il compagno l’allontanò con lentezza. I suoi occhi, brillanti come ossidiane e più neri dell’inferno profondo, non versano una lacrima: rimasero fissi e discreti, decisi e imperiosi.
«Non toccarmi», mormorò. Nella sua voce non c’era traccia di cattiveria; era, al contrario, la voce di un uomo distrutto, distrutto nell’anima e nell’orgoglio, dilaniato nelle profondità della propria essenza, cui la perseveranza non aveva portato altro che quello. Una voce rotta, eppure carica di una dignità pregna d'una intensa, commovente rassegnazione: solo… la voce di Alexander, che aveva imparato a conoscere fin troppo bene, e che la notte, nella solitudine della sua branda, gli mancava tanto da indurlo pregare – chi, poi? -, affinché quell’ossessione si placasse.
«Nemmeno se ti dicessi che c’è una possibilità…?», gli rispose in un soffio Jim, il volto rigato dalle lacrime, che si portavano appresso anche il sudiciume che lo ricopriva, creando una maschera di dolore e disperazione.
«Non toccarmi», ribadì Alexander. «Che nessuno mi tocchi».
Jim retrocesse, fino ad incontrare il legno ruvido della branda coi polpacci. Vi crollò sopra, senza mai distogliere gli occhi da Alexander, rimasto in ginocchio al centro della stanza, col volto coperto da entrambe le mani, chiuso nel suo virile, forte mutismo.

Eppure una possibilità c’è, pensava Jim, e, come una litania sconfortante, se lo ripeteva nella mente: una possibilità c’è, una possibilità c’è: tanto non abbiamo più nulla da perdere…
E mentre si ostinava ad osservare l’amico, sperando in un cenno qualsiasi da parte sua – anche il più insignificante; “Guardami; guardami ti prego” - una crisi violentissima lo scosse dal profondo, facendolo crollare sul pavimento gelido della stanza, con le pupille orrendamente assottigliate e la bava alla bocca.
La sua mente si spense in un risucchio e fu silenzio.
 
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Aborted_666
view post Posted on 30/5/2012, 14:11




AVVISO: questa storia rimarrà sospesa per un pochino. D:
 
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10 replies since 27/9/2011, 15:37   84 views
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