Rating: NC17/Rosso, per scene esplicite di sesso e per argomenti delicati.
Genere: Angst, drammatico, dark, romantico
Avvertimenti: SLASH, ovviamente!
Autrice: Aborted_666
Sinossi: Alexander viene mandato in un manicomio a causa di un omicidio. Ivi incontra Jim, un uomo psicolabile, visionario, ma fin troppo razionale nella sua follia degenerante. Alexander, però, si rende conto che c'è qualcosa di terribilmente sbagliato in tutto quello che sta accadendo, non appena anche lui comincia ad essere vittima di strani incubi persecutori. Nel mentre la follia di Jim degenera, si estende anche al di fuori della sfera onirica, ed i mostri da lui stesso generati cominciano a consumarlo dall'interno. Fra i due sorge una profonda ossessione, favorita anche dalla loro convivenza forzata e dalla situazione degradante nella quale stanno sprofondando, fino a quando, raggiunta la vetta del delirio, Alexander decide di prendere in mano la situazione una volta per tutte...
Attenzione: la storia che state per leggere contiene argomenti delicati ed un linguaggio piuttosto forte. E' pertanto consigliata ad un pubblico maturo. NB: temo che questo lavoro si articolerà in parecchi capitoli, dal momento che la trama è piuttosto complessa. Il prologo ed il primo capitolo saranno un po' lenti, ma appena la vicenda comincerà a svolgersi, prenderà un ritmo più cadenzato (almeno, si spera! xD). Buona lettura!
THE CORNER OF SILENCE
- Preghiere Agnostiche -
- Prologo: «Due sassi incastrati nel collo di bottiglia» -Il suo incubo prendeva forma ed appassiva in una cacofonia di singulti.
Si materializzava per qualche breve attimo, rimaneva sospeso in un dormiveglia indecifrabile, si scuoteva leggermente ed evaporava sotto ai suoi occhi.
Si dispiegava, assumendo le fattezze dell'antica pergamena dei suoi ricordi, ma rimaneva un soggetto incomprensibile – ed ecco che, nuovamente, tremava e si dissolveva.
Osservò le pareti umide che l'opprimevano, permeate di miasmi insopportabili - e da esse, come il presagio di una maledizione, sporgevano sagome amorfe, che si riassorbivano con un incessante ed ipnotico moto ondulatorio.
Era la sua pazzia, il suo delirio; era la nausante consapevolezza che da qualche parte, nella sua testa, un parassita cancerogeno consumava il suo senno.
Era il semplice disciorgliersi della neve sul selciato – ed insieme ad esso tremolava nell'aria l'ululato scricchiolante delle suole che la insozzavano, come un rigurgito sonoro di ossa che si frantumano.
«E' paranoia. In fondo sapere che sei vivo è la notizia peggiore.» Le ombre si dissiparono. Allo scricchiolìo della neve si sostituì quella voce, che nella stanza angusta risuonò con la potenza di un urlo.
«Paranoia, mh?»
«Sei solo fottutamente pazzo – come tutti qui dento, del resto. Basta non pensarci.» L'uomo rise.
«Tu non lo sembri.» Finalmente si voltò – ed a quel punto le tenebre che attanagliavano ed annebbiavano la sua mente si tramutarono in uno sfondo dalle tinte invadenti, che trasformavano lo spazio intorno a lui in un mondo bidimensionale; il suo interlocutore si ridusse ad una sagoma dai contorni labili.
«Io
non lo sono.»
«Eppure ti hanno rinchiuso in questa fogna del cazzo.
Benvenuto.» L'altro, nuovamente, rise – una risata bassa, gutturale, tutt'altro che divertita.
«Se uccidi sei pazzo, a questo mondo,» rispose. Seguì un attimo di silenzio, intervallato dal frusciò degli abiti logori che indossavano.
«E' dicembre. E' un fottuto, disgustosissimo dicembre. Uno dei tanti che passerò qui dentro a marcire,» mormorò. Fece una pausa, cercando di scorgere l'espressione dell'altro. Ma c'era solo un alone nero intorno a quella figura, che lo ricopriva di un imperscrutabile mistero. «Sì, è dicembre... - continuò - Se uccidi un uomo a dicembre, il suo sangue tingerà la neve e sarà la prova lampante del tuo crimine.» Rise, prima di proseguire: «Devi ucciderlo in agosto, cospargerlo di legna secca e bruciarlo – ed allora quel caldo sarà attribuibile all'afa estiva. Sarà un falò di foglie morte e putrescenti, di merda e scarti. Ed il sangue andrà ad accarezzare le radici degli alberi in fiore.»
«Cazzo, ci pensi la notte a queste cose? Mentre sogni mostri e tutte quelle cazzate da mente bacata? Per te uccidere una persona significa avere uno spunto suggestivo per creare un racconto dell'orrore? Beh, hanno fatto bene a sbatterti qui dentro ed a buttare la chiave.»
«Pensarlo e farlo sono cose diverse.»
Per l'ennesima volta quello rise: «Ah! Pazzo, ma sagace. Hai un nome?»
Sospirò: «Qui dentro mi chiamo
feccia della società – ma non credo che ti sia di grande aiuto. Non ricordo il mio nome, suppongo che sia marcito insieme al mio cervello bacato. Jim; chiamami Jim.»
«
Jim?» l'individuo misterioso schioccò la lingua, dietro alla coltre di tenebre.
«Era il nome del mio cane.» E si stupì nel rendersi conto che quello fosse l'unico nome che ricordava.
- Capitolo I: «Le due pecorelle smarrite» -Il mattino giunse quasi inaspettatamente. Fu il clangore del chiavistello a svegliarlo, distogliendolo dalle quotidiane allucinazioni oniriche. Ne fu quasi disturbato, mentre sentiva il sudore freddo far contrasto con la ventata di aria gelida che lo travolse.
«
Feccia della società, alza il culo.» Come di consueto, prima ancora che il nuovo giunto terminasse la frase, lui si alzò. Gli stava già porgendo la vena, tiepida e pulsante di sangue infetto.
L'iniezione fu rapida, dolorosa e con grande probabilità avrebbe aggiunto un ematoma al suo braccio ormai livido.
«Anche tu, muoviti. Alzati e ringrazia Dio, perchè ti sto solo facendo un favore.»
Ah, lui. Se n'era quasi dimenticato – la nuova pecorella smarrita, giunta all'ovile del buon Dio -, relegandolo a quella dimensione mentale in cui ormai non esistevano altro che incubi, allucinazioni, buio a perdita d'occhio ed entro il quale stava affondando con sempre maggiore frequenza – il fondo di quel baratro sembrava inghiottire l'infinito stesso.
Non appena il portone di metallo fu richiuso, lui si riadagiò sulle federe sgualcite. Alla sua destra qualche scialbo raggio di sole illuminava l'individuo della notte precedente, voltato di schiena – un'ampia schiena, ricurva sotto il peso della stanchezza e del patimento.
«E tu? - Sussurrò, - tu non hai un nome?» Quella domanda, così improvvisa, troncò di netto il silenzio teso che si era creato.
Quello, come aveva fatto durante la loro prima conversazione, rise. Rise sguaiatamente, quasi avesse appena udito un racconto terribilmente esilarante; rimase tuttavia sottintesa l'amarezza che in un simile tipo di narrazione non si sarebbe potuta riscontrare.
«Il mio nome non lo ricordo – disse infine. -
Chiamami Dio.» Quando il riso isterico si placò, si girò lentamente verso Jim ed in un sussurro aggiunse: «Dio B******o – da qualche parte deve pur stare, no?» Ed in quella frase era racchiusa la penosa solidarietà che, in casi come il loro, suonava quasi come un obbligo.
Jim posò attentamente lo sguardo su di lui, mosso dalla morbosità di un folle, dal bisogno di un recluso e dalla mera curiosità che l'altro risvegliava in lui. Nel suo volto scavato, intravide la semplice armonia che si nascondeva sotto quella maschera di malcelata sofferenza. Non c'era altro, in quella stanza avvolta dalla penombra, che potesse catalizzare la sua attenzione; così, nel silenzio della meditazione, continuò per interminabili minuti a fissare la linea del suo profilo, l'ombra sbiadita che proiettava sul muro e le pieghe che prendeva il suo corpo – e per un breve istante lo colse la commozione, nel ricordarsi che la terza dimensione tramutava lo spazio intorno a lui in qualcosa di reale e tangibile.
Pensò che quel nome,
Dio, fosse perfetto per uno come lui. Ma non aveva in mente quell'immagine mortificante di un Dio trascendente e misericordioso per cui interi popoli morivano; non quel Dio buono e caritatevole per cui si edificavano chiese e santuari, nella mera speranza di poter essere salvati. No. Jim non credeva in quel tipo di divinità, così distante, intangibile, penosamente superiore a qualsiasi cosa lo circondasse. Il suo Dio era possente, crudele, tonante e tinto dallo scoppio vermiglio di fiamme roventi; era energia insita nella natura stessa.
Non ricordava, in realtà, cosa ci fosse fuori da quelle mura. Non ricordava che sapore avesse l'acqua pulita; non ricordava la sensazione che scaturiva dal semplice contatto con la terra. Tutto ciò che apparteneva alla memoria del reale era ora solo l'ingranaggio del meccanismo guasto delle sue allucinazioni – e più passava il tempo, più la concretezza dei suoi ricordi si deformava, si alienava da se stessa e diveniva lo scarto informe della sua malattia.
«Dio, chi hai ucciso?»
L'uomo si voltò a guardarlo. Per un solo istante guizzò sul suo volto contratto un accenno di fastidio, di rabbia; ma subito dopo sorrise.
«Diamine, non chiamarmi veramente Dio; è un nome abbastanza ridicolo,» mormorò, tornando a fissare il vuoto.
Jim non rispose, né tantomeno si soffermò a pensare al fatto che l'altro non avesse risposto alla sua domanda; si limitò a guardarlo, come se il non sapere come chiamarlo comportasse una pecca nella comunicazione - in fondo il suo unico problema si riduceva a quel poco.
«
Alexander – disse l'uomo, cogliendo il significato di quel silenzio. - Mi chiamo Alexander.»
Jim annuì; fu tuttavia atterrito da un'inaspettata delusione. Ora che sapeva il suo nome, si trovò costretto ad ammettere a se stesso che non cambiava nulla: rimaneva, fra loro, quell'inspiegabile distanza, quella difficoltà nel dialogare – dovuto forse al fatto che un pazzo non fosse in grado di intrattenere alcun tipo di relazione con un uomo
normale.
Sì, Alexander era un nome normale,
troppo normale. Non rientrava più nella visionaria sfera dei suoi pensieri, non rimandava più all'immaginifica dimensione della sua fantasia deviata.
Alexander non era più Dio, era solo uno dei tanti che, se solo lo avessero voluto, avrebbero potuto fare quello che volevano della propria vita.
L'uomo osservò per qualche breve istante l'espressione contrita del suo compagno di gabbia, per poi sospirare.
«Dimmi una cosa, Jim: l'avere davanti una persona come me non ti spaventa? Tu sarai anche pazzo, ma io sono sano... ed un assassino. Ho ucciso a sangue freddo e non me ne pento.» Detto ciò, addossò stancamente la schiena al muro lurido.
Jim tese le labbra in un sottile, fragile sorriso. Alzò il volto per osservare i raggi di fioca luce che filtravano dalle sbarre della piccola finestrella posta in alto; infine tornò a posare lo sguardo su Alexander.
«Perchè dovrei? Saperlo, invece, mi consola: così, fra i due, sono io quello che può definirsi normale.» L'altro aggrottò le sopracciglia, espellendo tutta l'aria che aveva nei polmoni con un lungo, sonoro sospiro.
«Potrei ucciderti, - ribatté - Potrei
impazzire anche io per il senso di colpa ed essere travolto da un istinto violento nei tuoi confronti.»
Jim smise immediatamente di sorridere. Il suo sguardo si fece serio, cupo; i suoi occhi si ridussero a due fessure luminose, da cui traspariva un incontenibile rancore. Avrebbe voluto rispondergli con mille e mille frasi, avrebbe potuto rinfacciargli il fatto che stesse sbeffeggiando la sua condizione con un'incauta leggerezza; ma più di quello, avrebbe
dovuto rimproverargli il fatto di aver ridotto la sua follia a qualcosa di biasimabile e correlato a sentimenti così terreni e transeunti. Avrebbe sì voluto rispondergli tutto questo, vomitandoglielo in faccia con disgusto ed insofferenza, ma non lo fece.
Al contrario: la sua espressione mutò, divenendo un ghigno isterico; un orrendo, soddisfatto compiacimento della propria situazione.
«
In fondo sapere che sei vivo è la notizia peggiore, – rispose, con una pacatezza carica di tensione – Ti prego di liberarmi,
Dio. »
Alexander non rispose, non riuscì a farlo. Fu però scosso da brividi graffianti, da sentimenti terribilmente contrastanti fra loro, da una cacofonia di battiti cardiaci fuori controllo che gli rimbombavano in tutto il corpo; fu fatto strumento, cassa di risonanza di un'infinità di pensieri osceni e vergognosamente umani.
«Jim, - mormorò, socchiudendo le palpebre in un tremolìo ansioso, - Jim...» La sua era una preghiera, una cantilenante invocazione; era la tenue, stanca esplosione di quel nugulo compresso di dolore e necessità, che gli gravava addosso da quando l'avevano sbattuto là dentro, e che trovava requie in quel nome terribilmente vacuo –
l'unico nome che, da quel momento in poi, avrebbe potuto chiamare.
«Perché cazzo ti hanno rinchiuso in questo inferno?»
Jim scosse la testa. Il suo volto era inespressivo, ma i suoi occhi rimasero chiusi, stretti quasi con violenza: ivi si celava il suo straziante segreto -
l'ultima fune che lo collegava alla realtà.
«
Sono pazzo,» disse. Ma la voce era troppo vacillante; troppo incerta. Sembrava che la sua unica, triste certezza si fosse tramutata in quello che realmente era:
una maledizione, un'impietosa condanna inflitta da...
Jim improvvisamente s'irrigidì. Le sue pupille si assottigliarono, fino a perdersi nel buio delle iridi corvine; il suoi occhi divennero calici vuoti, entro i quali Alexander scorse solo una spaventosa, deformata disperazione; violente convulsioni cominciarono a scuoterlo, a sciogliere nella sua gola gemiti strozzati e stridenti rantoli; l'uomo si accasciò inerte sul letto, tremando, sospirando quasi fosse immerso in una nube di gas asfissiante che gli straziava la trachea. Le sue mani erano contratte in una posizione tutt'altro che naturale – e sollevandosi, muovendosi quasi a scatti, scavavano incessantemente nell'aria per cercare chissà cosa. Quando i rantoli si trasformarono in flebili grida, Jim cominciò a stringere la sua stessa gola con una forza inaudita; le unghie, sporche e spigolose, lacerarono la pelle, rompendosi a loro volta. Ed in quel marasma di mani, ferite e pelle orrendamente dilaniata, il sangue impastava tutto - come un'oscena opera d'arte monocroma, che pareva brillare nell'oscurità calante.
Alexander osservò la scena con l'orrore dipinto in volto. Jim ormai gridava, si contorceva nelle federe insudiciate dal lerciume e dal sangue fresco ed intanto continuava a martoriare quel suo corpo scarno e deperito con una veemenza animalesca.
Lo spettatore fece un passo in avanti, fremente di paura ed angoscia. Tese l'orecchio per cercare di sentire se qualcuno fosse diretto alla loro stanza per soccorrere quel paziente riverso sul letto, con la schiena inarcata e la bocca spalancata oltre i limiti del possibile; ma non giunse nessuno. Il corridoio fuori dalla loro cella era silenzioso, presumibilmente deserto - e lui rimase
solo in quella situazione drammatica.
Tentò di afferrare la mano di Jim, ma quello sfrustava l'aria come per scacciare il demone della sofferenza da sé. Alexander fu colpito sul braccio con forza, ma non si arrese. Afferrò antrambi i polsi dell'uomo, che cominciò ad urlare più forte e con maggiore insistenza. Era quella la sua pazzia? Era
veramente quella la sua terribile malattia?
Con uno strattone Alexander lo fece alzare, tentanto di immobilizzargli il busto con il corpo. Il sangue dell'indemoniato cominciò ad imbrattargli la pelle, gli abiti; alcune gocce schizzarono nella sua bocca, provocandogli fragorosi conati. Ogni gesto era ormai mosso da un cieco terrore.
Jim non si arrestava: piangeva, gridava, muoveva tutto quello che poteva muovere del suo corpo. Era una crisi senza fine, sembrava quasi che stesse attingendo energia da una fonte inesauribile.
Alexander aveva fottutamente paura - lui, che aveva causato la morte di una persona, aveva paura di tutto quel sangue che stava sgordando dalle ferite del compagno -, così, preso dalla disperazione, lanciò un grido - forte,
fortissimo – per sovrastare le urla disperate del compagno. Gridò fino a sentire la gola andargli a fuoco dal dolore, fino quasi a non sentire più la voce dell'altro. Quando si arrestò, trovò Jim immobile fra le sue braccia – scosso ancora da qualche sporadica e leggera convulsione -, ansimante e gocciolante di sudore; dopo pochi secondi, quello perse i sensi, accasciandosi contro al corpo di Alexander.
Mentre le forze lo abbandonavano, Jim ebbe tempo di pensare – in un barlume di lucidità – che, nonostante tutto, la sua disperazione avesse un fondo.
Il problema era trovarlo.Edited by Aborted_666 - 1/10/2011, 19:18