5106 hours 34 minutes 19 seconds, Partecipante alla challenge dal nome alla storia

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MaelstromDawn
view post Posted on 7/6/2013, 15:37




Nick autore: MaelstromDawn
Titolo storia: 5106 hours 34 minutes 19 seconds
Genere: fluff, romantico, sentimentale
Avvertimenti: parole in ceco sparse qua e là... ok questo non è un vero avvertimento
Breve introduzione: Le persone intorno a me sono tutte fondamentalmente sardine, non che abbiano le sembianze di pescetti argentei o siano destinati a finire i loro giorni in una scatoletta di latta, però si comportano come loro, nuotano tutti nella stessa direzione, cercano rifugio nella massa perché troppo spaventati per affrontare da soli l’oceano.
Ogni tanto, però, come in tutte le cose, compare un'eccezione, un pesciolino Nemo, uno che ha il coraggio di staccarsi dal banco e andare a toccare il motoschifo.
Eventuali note: dunque, questa storia è ambientata a Praga, città che ho amato e che ho avuto modo di esplorare, pertanto appaiono alcune parole che potrebbero perplimere quali stilnice (letteralmente “strada”), Gymnázium (il liceo), Staropramen (una delle tipiche birre ceche) e Praha (nome ceco di Praga). I nomi propri sono tutti tipicamente cechi così come anche i cognomi e da ultimo il Viva Praha esiste davvero (qui il sito) e ha come specialità le rock candies (se si va a Praga sono da provare, il negozio è a due passi dalla torre dell’orologio).
Nel titolo vi è poi un riferimento alla metafora che ho usato lungo tutto il corso del testo, ovvero quella su Nemo, la battuta originale di “Ha toccato il motoschifo!” è infatti “He touched the butt!”, da qui il titolo.
Spesso Kris, parlando, si esprime a gesti, ho voluto sottolineare così il suo carattere pacato e vagamente taciturno, mentre per Franta ho scelto un linguaggio un po’ scorbutico in contrasto con la sua fisicità efebica.
Buona lettura ^^


5 106 hours 34 minutes 19 seconds
~the courage to touch the butt~





Il selciato scorre sotto i miei piedi mentre seguo docilmente la massa di gente che affolla la piazza dell'orologio.
Nuotare insieme al banco... mi pesa un po' ammetterlo, ma sono sempre stato bravo a farlo.

Le persone intorno a me sono tutte fondamentalmente sardine, non che abbiano le sembianze di pescetti argentei o siano destinati a finire i loro giorni in una scatoletta di latta, però si comportano come loro, nuotano tutti nella stessa direzione, cercano rifugio nella massa perché troppo spaventati per affrontare da soli l'oceano.
Ogni tanto, però, come in tutte le cose, compare un'eccezione, un pesciolino Nemo, uno che ha il coraggio di staccarsi dal banco e andare a toccare il motoschifo.

Io avevo avuto la fortuna di trovarne uno, di quei pescetti controcorrente, si chiamava František Ruzicka, ma tutti lo chiamavano Franta, ed era un tipo minuto che se ne stava sempre sulle sue e con i capelli così lunghi da farlo sembrare una ragazza.
Ricordo benissimo il giorno in cui l'ho conosciuto, era un normalissimo e grigio pomeriggio di settembre e, a dire la verità, io Franta l'avevo già visto un bel po' di volte.
Abitava nell'appartamento di fronte al mio, all'ultimo piano del numero 27 di stilnice Saská, tra la sua stanza e la mia ci saranno stati al massimo sei metri in linea d'aria, eppure, nonostante avessi più volte sceso le scale a qualche passo di distanza da lui mentre raggiungevamo stilnice Josefská per varcare i rugginosi cancelli del Gymnázium, non l'avevo mai veramente guardato.

Potrei dire che nel nostro incontro vi fosse lo zampino del fato, ammesso che le Parche avessero come emissario una megera nodosa quanto un ulivo e con la peggior voce nasale che mi sia mai capitato di sentire...





Adéla Brozek era la portinaia del 27 da tempo immemore e da che potessi ricordare non aveva mai avuto simpatia per gli inquilini più giovani, le sue ramanzine e la sua puzza di cherosene ˗ per via della stufetta perennemente accesa, “per tenere lontani i reumatismi” diceva lei ˗ erano ormai leggenda e nessuno si augurava di doverci aver a che fare per un tempo più lungo di quello richiesto dall'educato buongiorno mattutino che le si rivolgeva uscendo ˗ e soltanto per ricevere in risposta un grugnito.
In ogni caso in quel pomeriggio di settembre venni distolto dal mio consueto riposo da un incessante bussare e una volta aperto mi ritrovai di fronte proprio lei, in tutta la sua magnificenza calzata e vestita di scialle verde acido.
L'atrio era invaso da una musica assordante e la signorina Brozek mi sventolò un dito ossuto sotto il naso fissandomi con i suoi occhi vagamente sporgenti «Dì al tuo amico di fare silenzio, altrimenti la multa per il disturbo ai coinquilini la dividi con lui» gracchiò prima di stringersi nell'obbrobrio verdastro ed eclissarsi in una folata di cherosene.

Avrei potuto protestare, dirle che io e Franta non eravamo affatto amici o mandarci lei a dire a quello strano tipo di abbassare la musica, ma sapevo che non ci sarebbe stato verso di farle cambiare idea; dopotutto Adéla Brozek mi odiava, e dopo il brutto alterco che aveva avuto con il signor Ruzicka qualche mese prima non si sarebbe mai arrischiata ad addentrarsi nell'appartamento 27/g.

Il fato, travestito da signorina Brozek mi aveva appena messo sulla strada più importante della mia vita, ma questo allora ancora non lo sapevo, anzi, sul momento vedevo la cosa unicamente come un fastidio.

Dopo aver bussato incessantemente per un minuto e aver accarezzato più volte l'idea di tornare all'abbraccio del mio divano ˗ accantonandola immediatamente memore della minaccia della megera ˗ mi decisi finalmente a ruotare la maniglia della porta e a varcare la soglia.
Una volta entrato la musica si fece ancor più assordante, un frastuono colossale che col tempo avrei poi imparato ad etichettare come heavy metal e lì, sul divano a pochi metro dall'ingresso, c'era sdraiato František Ruzicka, la fonte dei miei problemi.

Se ne stava allungato fra i cuscini con un grosso gatto rosso acciambellato sulla pancia, i capelli gli ricadevano sulla faccia, ma si vedeva benissimo che aveva un occhio pesto e il labbro inferiore spaccato.
Prima di fare o dire qualsiasi cosa mi premurai di far cessare quel baccano infernale e poi mi voltai a guardarlo.
La fonte dei miei problemi scattò a sedere facendo miagolare sonoramente il felino.

«Chi sei tu?».
Sollevai un sopracciglio, perlomeno io il suo nome me lo ricordavo...
«Sono Kris, abito qui di fronte» dissi un po' scocciato.
«E dimmi, “Kris che abita qui di fronte”, perché hai spento la mia musica?» mi chiese con aria di superiorità; era un bell'atteggiamento per uno che doveva averle chiaramente prese e mi stava quasi facendo venire voglia di aggiungere un po' di viola a quello che già aveva in faccia. Per un istante rimproverai me stesso con un classico “non si picchiano le ragazze”, salvo poi ricordarmi che quello che avevo davanti, per quanto sottile e dai lineamenti delicati, fosse pur sempre un uomo, un uomo antipatico per giunta.
«La Brozek mi ha costretto a farlo» mi giustificai cominciando ad averne abbastanza di quella conversazione.
Mi guardò come se non lo trovasse un motivo poi così valido, ma non proferì parola, prese semplicemente ad accarezzare il grosso gatto rosso ˗ che avrei poi scoperto chiamarsi Gilmour ˗ ignorandomi come se dovessi scomparire da un momento all'altro.

Non so di preciso cosa mi trattenne da girare i tacchi e concludere lì la mia esperienza con Franta, fatto sta che mi schiarii la voce e con un po' di titubanza mi ritrovai a chiedere «Va tutto bene? Voglio dire, la musica era...».
«Alta» mi interruppe «Era alta, sai come si dice: la musica e i gatti sono un ottimo rifugio dalle miserie della vita» spiegò solennemente grattando dietro le orecchie il felino che prese a fare le fusa con l'intensità di un radiatore mal funzionante.
«E quelle...» mi indicai vagamente la faccia e lui si portò una mano al labbro violaceo e ancora un po' sporco di sangue secco.
«Uhm, ho avuto un incontro ravvicinato con una palla di ferro...».
«Il pugno di Ceněk» tradussi simultaneamente, non mi era nuovo che Ceněk Kladivo desse sfoggio della sua potenza fisica usando come sacco da boxe chi non poteva difendersi.
«Già, sono il suo punch ball preferito» disse con un sorriso amaro.
«Io non mi lascerei pestare da uno con così poca tecnica» non mi trattenni dal dire «Non ci vorrebbe poi molto a tenerlo a bada». Franta scattò in piedi come se gli avessero dato la scossa «Facile dirlo per te, nessuno verrebbe mai a darti rogne!» mi sbraitò contro riducendo i suoi grandi occhi castani a due fessure.
Non aveva tutti i torti, ma restava il fatto che Kladivo fosse un idiota senza arte né parte, con qualche base di combattimento non sarebbe stato difficile rimetterlo al suo posto, «Hai ragione» mi ritrovai a dire «E sai perché con me non ci provano?» scosse la testa fissandomi confuso; non me ne meravigliavo, dopotutto non ero poi così tanto grosso, a meno che non avesse provato a picchiarmi ˗ e dubitavo fortemente che l'avrebbe fatto ˗ non avrebbe mai potuto immaginare di cosa ero capace.
«Perché so il fatto mio, non ho bisogno di essere un gorilla come lui per mettere a cuccia Ceněk».
«Tu sai combattere?» mi chiese Franta a metà tra l'ammirato e il diffidente.
«Quanto basta...».

Quanto basta era alquanto riduttivo in effetti, mi allenavo due ore al giorno, domenica inclusa, nelle arti marziali miste. Franta non lo sapeva, ma Kladivo ci aveva provato più volte a fare di me il suo sacco e solo per poi arrendersi all'evidenza che potevo anche essere più piccolo di lui, ma non sarebbe mai riuscito a battermi.

«E potresti insegnarmi?» chiese guardandomi di sottecchi come se già si aspettasse il mio rifiuto.
«Non sono un maestro...».

E invece lo diventai in fretta; non sapevo cosa mi fosse preso, sul momento avrei detto che mi avesse fatto pena, ma col senno di poi fu il modo in cui mi aveva guardato a convincermi: Franta non aveva paura di essere pestato di nuovo, non gliene sarebbe importato nulla se Ceněk gli avesse fatto un altro occhio nero, tutto ciò che gli interessava era avere anche solo la speranza che un giorno avrebbe potuto rialzarsi e restituirgli tutto quello che gli aveva regalato in quegli anni.

«Va bene» mi ritrovai a dire e František Ruzicka mi tese la mano.
La osservai per un istante prima di stringerla, aveva le dita sottili e delicate, non sapevo nemmeno se sarebbe mai stato in grado di dare un pugno come si deve, però avevo accettato.

Mentre ero lì, con la mano di Franta nella mia, gli sentii addosso un profumo ben diverso dal tanfo di cherosene della Brozek.
Franta sapeva di frutta candita e quello era un profumo che non avrei mai dimenticato.
Il profumo di un pesciolino Nemo.





Smetto di fissare i lastroni di pietra incrostati di chewing gum e resti di cibo e sollevo lo sguardo sul primo sbocco della piazza.
Non mi è mai piaciuta la Praga turistica, tutta felpe della Staropramen e pacchiani souvenir, non l’ho mai sentita davvero come parte della mia città, della Praha in cui sono cresciuto, eppure negli ultimi anni ci sono venuto sempre più spesso e tutto per raggiungere il Viva Praha, il paradiso dei dolci.
Dopotutto era quello il primo particolare che avevo colto di lui, il profumo di frutta candita.





Il padre di Franta, e suo nonno prima di lui, erano caramellai nel più grande negozio di dolciumi di tutta Praga famoso per le sue ineguagliabili caramelle alla frutta. Ci passava le ore in quel negozio, un po’ a guardare quelle meraviglie colorate che prendevano forma, un po’ semplicemente ad aggirarsi fra quelli scaffali stipati di ogni dolce che si potesse immaginare.
A forza di girovagare fra cordoni di pasta di zucchero e lecca lecca ancora caldi aveva finito per profumare anche lui come le rock candies. Quel profumo non lo abbandonava mai, gli restava sempre appiccicato addosso, anche quando lo sfinivo con gli allenamenti.

Franta non era particolarmente dotato e non era nemmeno sempre così desideroso di impegnarsi, però era un buono studente ˗ se così si poteva chiamare.
Ci allenavamo sotto il pergolato sul retro della palazzina, d'inverno faceva un freddo del diavolo e d'estate ci sembrava di essere sul punto di scioglierci, ma non ci era mai neanche passato per l'anticamera del cervello di prenderci una pausa; per un anno intero avevamo proseguito senza saltare nemmeno un appuntamento.


Di punto in bianco mi ero reso conto che non era solo più questione di fare un favore a un ragazzino nel mirino dei bulli, mi piaceva passare il tempo con lui, ero arrivato ad attendere quasi spasmodicamente che arrivassero le quattro per trovarci sul pianerottolo e scendere insieme.
Stare con lui era come prendere una boccata d'aria fresca e stava prendendo piede in me una sorta di ammirazione nei suoi confronti per il modo in cui andava dritto sulla sua strada senza curarsi di cosa facessero gli altri.

Ammirazione, già, era cosi che giustificavo il fatto che non riuscissi a staccargli gli occhi di dosso.
Mi perdevo ad osservarlo mentre colpiva il sacco di juta pieno di stracci che usavo per fargli migliorare la respirazione, i muscoli ancora non si vedevano ˗ eppure dopo un anno qualche risultato avrebbe dovuto emergere ˗ guizzavano sotto la sua pelle pallida e la sua forza era aumentata, ma la muscolatura non era ben marcata, le sue linee continuavano ad essere morbide e femminili.

Le cose erano precipitate di colpo, come una zavorra sganciata da una mongolfiera; cade un sacco e subito si guadagnano un paio di metri in aria.
Lì sul momento non avevo realizzato quali sarebbero state le conseguenze di ciò che stavo per fare, mi sembrava un gesto come un altro, una semplice curiosità da pseudo allenatore.
Gli avevo chiesto di fermarsi un attimo e lui si era voltato a guardarmi incuriosito, «Come sei messo con gli addominali?».
Non avevo mai avuto modo di constatare se almeno lì ci fossero stati progressi così, semplicemente, gli alzai la maglietta.

La sua pancia era piatta, bianca come il latte e perfettamente implume, solcata soltanto dall'ombelico leggermente a mandorla.
Aveva i fianchi stretti che si riunivano a v sui muscoli flessori appena accennati e scivolavano sulle ossa del bacino lievemente sporgenti.
Passai delicatamente le dita sulla pelle, ancora non so se fosse per testare se effettivamente di muscoli non ce ne fossero o per scoprire se la sua pelle fosse davvero morbida come sembrava.

Lo era, era dannatamente morbida, e quando lui si contrasse appena per il mio tocco la sentii tendersi lievemente e tremare.
Lasciai cadere la maglietta e solo allora vidi che era arrossito terribilmente e che le sue guance erano diventate rosse come le caramelle alla ciliegia del Viva Praha.

I suoi occhi castani erano, se possibile, ancor più grandi e aveva la bocca lievemente aperta, in un istante mi ritrovai a pensare che avesse delle belle labbra e che magari anche quelle sarebbero state morbide come la sua pancia.

Mezzo secondo dopo stavo baciando František Ruzicka e, no, non mi importava di nient'altro se non che lui non si stesse tirando indietro.


Mi viene da sorridere se ripenso a quel giorno, a come era sparito in fretta su per le scale e a come sbirciava dalla porta socchiusa mentre rientravo in casa, come ad assicurarsi che fossi proprio io e non un qualche sosia strampalato.
Non ero certo di cosa provassi in quel momento, diciamo pure che in quel periodo ero insicuro su molte cose, però una cosa era chiara, non mi pentivo affatto di ciò che avevo fatto.


Non c'era voluto molto perché i nostri allenamenti si trasformassero in sforzi fisici di altro tipo.
Franta non era rimasto timido a lungo, ma dopotutto avrei dovuto aspettarmelo, era uno che nuotava fuori dal banco, e io stavo lì ad ammirarlo, quasi ad invidiarlo. Io che ero quello forte, quello che nessuno avrebbe mai osato sfidare, mi ritrovavo ad essere così attratto da un ragazzetto gracilino e femmineo.
Non era concepibile, o almeno non avrebbe dovuto esserlo, e invece mi sembrava di poter essere felice solo quando ero con lui.

Ma eravamo ancora giovani e ingenui, non tenevamo conto delle difficoltà che potevano attenderci; io perché nemmeno le immaginavo, e Franta perché in fondo non gliene importava nulla.
Già, a lui non importava nulla di quanto potessero essere difficili le cose, sapeva sempre uscirne.


Era una mattina di novembre, una mattina che tutti al Gymnázium avrebbero ricordato per molto tempo.
František era finalmente diventato abbastanza forte ˗ e non psicologicamente, quello lo era già prima ˗ aveva imparato a colpire per ferire, a sapersi difendere materialmente e non soltanto con il suo sarcasmo amaro.
Franta aveva fracassato il setto nasale di Ceněk Kladivo, un colpo secco proprio sulla gobbetta, dove la cartilagine si aggancia all'osso, con precisione chirurgica, come gli avevo insegnato.

Non ne era uscito indenne, Kladivo era comunque riuscito a rompergli un sopracciglio prima che l'emorragia diventasse troppo forte perché potesse continuare a menar le mani. Quella cicatrice Franta se la sarebbe portata dietro per tutta la vita, ma non come un fardello, no, quello era il simbolo del suo trionfo.
Era come preso da una strana euforia, una sorta di complesso di onnipotenza, la tipica sensazione di invincibilità che ti dà abbattere qualcuno.
«Non pensare di aver vinto, o che sia finita: nel momento in cui lo fai, sei morto» era una visione pessimistica, lo so, e rischiavo seriamente di rovinare il momento, ma non volevo che si mettesse in testa di essere intangibile per poi cacciarsi in guai più grossi di lui.
Ma ancora una volta Franta mi aveva sorpreso, «Non finché ci sei tu a proteggermi» aveva mormorato passandomi le braccia attorno al collo.

Mi piaceva quando mi baciava usando solo le labbra, mordicchiandomi delicatamente prima di far scivolare la lingua sulla mia piegando il collo per far combaciare perfettamente le nostre bocche.
Mi piaceva far scivolare le dita fra i suoi capelli ormai lunghi fino a metà schiena e sentirlo rabbrividire quando gli sfioravo la nuca.
Amavo sentirlo sospirare contro il mio collo quando gli accarezzavo i fianchi e saggiavo coi polpastrelli la sua pelle stupendomi ancora di quanto fosse morbida.
Sì, lo amavo, totalmente e incondizionatamente, la mia era ormai una dipendenza.





Ho un lampo di disappunto quando scorgo la colonna di persone che si affollano fuori dal negozio di caramelle.
Il profumo dei dolci si sente sin in mezzo alla strada e mi basta chiudere gli occhi e inalare per avere la netta sensazione che Franta sia di fronte a me. Solo adesso mi rendo seriamente conto di quanto mi sia mancato e di quanto desideri riabbracciarlo, è come se finora non avessi accumulato da qualche parte nella mia mente ogni minimo pensiero rivolto a lui nel tentativo di rendere la lontananza meno dolorosa.
Le barriere che avevo sollevato cadono di colpo e tutto ciò a cui riesco a pensare è Franta, il suo collo sottile e quel modo buffo che ha di sbattere le palpebre quando è sorpreso, le sue dita che hanno il profumo del caramello con una nota di tabacco e quel suo neo minuscolo e perfettamente rotondo sull'anulare.

Tutto, mi manca tutto, rimproverarlo perché smetta di fumare, raccogliere la sua roba sparsa per la casa e anche lagnarmi perché Gilmour non venga a dormire sul nostro letto.
Mi manca tutto, anche quel suo assurdo modo di impegnarsi pur di farmi saltare i nervi.





Aveva sempre avuto quella particolare tendenza al voler scatenare il mio disappunto, sin da quando avevamo appena cominciato a considerare la nostra relazione come qualcosa di almeno minimamente serio.
Era prima che stendesse Ceněk, un pomeriggio di ottobre in cui il sole filtrava in raggi bianchi dal cielo autunnale di Praga e Franta era arrivato alla tettoia prima di me.
Se ne stava in un angolo del cortile con le mani affondate nelle tasche della giacca verde e una sigaretta che gli pendeva mollemente dalle labbra. Aveva inspirato profondamente e la punta della paglia era diventata rossa incandescente, poi aveva lasciato uscire qualche nuvoletta di fumo dal naso prima di sfilare pigramente una mano dalla tasca e togliersi la stecca di bocca.
Aveva lasciato cadere la testa indietro soffiando fuori il fumo e io ero rimasto incantato a guardarne la linea del collo e il suo profilo in controluce e le labbra piene socchiudersi per far scivolare fuori il fumo.

Ero rimasto lì, con la mano ancora sulla maniglia della porta, senza spiccicare parola, semplicemente troppo preso ad ammirarlo mentre con noncuranza si riportava la sigaretta alle labbra senza sapere che lo stavo guardando.
Solo dopo avevo realizzato che, per quanto potesse essere attraente mentre fumava, si stava rovinando la salute e soprattutto che avrebbe finito per smorzare ulteriormente quel poco di fiato che era riuscito ad ottenere allenandosi continuamente.

«Cosa diavolo stai facendo?» avevo sibilato puntando verso di lui con passo marziale.
Franta si era voltato verso di me fissandomi placidamente «Fumavo una sigaretta mentre ti aspettavo» spiegò come se la cosa non fosse di per sé ovvia, trasse un'altra boccata di fumo raggiungendo il filtro «Ora sei arrivato e la sigaretta è finita, quindi possiamo anche cominciare» continuò pacatamente, ma con un mezzo sorriso di sfida a incurvargli le labbra.
«Da quanto?» chiesi indicando distrattamente il pacchetto di Petra che gli sbucavano dal taschino della camicia. Si limitò a sollevare le spalle sporgendo un po' il labbro inferiore «Una o due settimane», improvvisamente quel vago sentore di fumo che si mescolava all'abituale profumo di caramello sulle sue dita aveva acquisito senso.
«Non ti fa affatto bene, dovresti smettere».

Inutile dire che non solo non smise per nulla, ma passò con il tempo da un massimo di un pacchetto alla settimana ad una media giornaliera di cinque o sei paglie.
E a ogni mia protesta seguiva un sorrisetto sghembo o al massimo una risposta ironica, tanto per ribadire che non me l'avrebbe mai data vinta.





Riuscire a raggiungere il cuore del negozio ˗ il bancone dei caramellai ˗ senza doversi ritrovare in una mischia degna di una partita di rugby è tutta questione di tecnica, bisogna attendere il breve momento di pace fra un’ondata di turisti e l’altra e lanciarsi dentro prima che la folla affluisca nuovamente e io sono ormai un esperto nel cogliere l'istante più propizio.

Antonín solleva lo sguardo dal registratore di cassa e per poco non sobbalza nel vedermi «Santo cielo! Guarda un po' chi è tornato in patria, avevo sentito che non ti avremmo rivisto in giro fino a febbraio».
Sorrido all'amabile vecchietto che da anni gestisce il Viva Praha e scuoto appena la testa «Ho deciso di rientrare prima, come potevo perdermi il capodanno di Praga?», questa è la motivazione ufficiale, non posso certo dirgli che non avrei potuto sopportare un altro mese senza Franta.
Antonín sorride facendo un cenno con la testa verso il fondo del negozio «È fuori in pausa». Lo ringrazio con un cenno della mano avviandomi verso la porta sul retro.

Mi impongo di non accelerare troppo il passo, dopotutto per chi lavora qui dentro io e Franta siamo solo buoni amici... dopotutto non avrei alcun motivo di venire qui dopo ciò che ci siamo detti l'ultima volta che l'ho visto.
Sei mesi, sono passati sei mesi da quando Franta ha smesso di rivolgermi la parola, sei mesi da quando mi ha chiesto di scegliere fra lui e il mio lavoro.
Se ci penso adesso, che è a qualche metro da me eppure così distante, mi sento stupido ad aver accettato l'incarico in Inghilterra, trovo stupida persino la motivazione che avevo allora: spingermi nell'oceano, allontanarmi dal banco, scegliere da me la mia rotta, senza che nessun altro fosse artefice del mio futuro.

Ora che sono a pochi metri da lui questa minima attesa mi sembra impossibile da sopportare, eppure sono riuscito a restare per sei mesi a più di mille chilometri da lui senza sentire una così pressante urgenza di vederlo, forse perché avevo finito per convincermi di averlo perso, o forse perché sono sempre stato bravo ad insabbiare i miei stessi sentimenti.
Sei mesi di quello che agli occhi di un esterno potrebbe sembrare un martirio, lontano dalla persona che ami e incapace di salvare il rapporto, ma l'ho presa con un po' più di filosofia: era il mio viaggio nel grande blu; io, la piccola sardina troppo curiosa per starsene tranquilla con il resto del banco, ma ancora troppo spaventata per affrontare l'oceano sconfinato, ho preso armi e bagagli e sono partito, sette mesi in una cittadina vicino a Londra ad allenare una squadra di lottatori piuttosto promettenti ˗ che poi sono diventati sei facendo un po' di pressioni sul presidente della squadra.

Non avrei mai pensato di poter ricevere un'offerta del genere; a ventitré anni, con alle spalle due fratture del naso, diverse articolazioni lussate e una clavicola spezzata, la mia permanenza nel mondo dell'MMA mi sembrava ormai cosa da dimenticare.
E invece volevano proprio me, un po' per i miei successi sul ring, e un po' perché, dopo Franta, avevo rimesso i panni dell'allenatore per qualche ragazzo della palestra e i loro risultati avevano finito per portare i riflettori anche su di me.

František non l'aveva presa bene, l'aveva vista come una fuga da lui e dalla nostra relazione, l'aveva vista come un tirarsi indietro di fronte alla difficoltà del tenere nascosto il nostro rapporto a parenti e colleghi dietro la facciata dei coinquilini. Per lui la mia partenza era suonata come un tradimento.
Eppure ero partito lo stesso, era una cosa che dovevo fare per me, per cambiare il flusso della mia corrente, e speravo che un giorno anche lui avrebbe capito.


Quando avevo ottenuto il permesso di una partenza anticipata non avevo informato nessuno, né i miei genitori, né tanto meno Franta, volevo tornare improvvisamente, coglierlo di sorpresa e cercare una scintilla di felicità nei suoi occhi. Solitamente non sono io quello particolarmente teatrale fra i due, ma per una volta posso anche concedermi il lusso di un'entrata in scena trionfale.

Poggio la mano sulla maniglia, la sardina curiosa è giunta al termine del suo viaggio, si è allontanata così tanto dal suo ideale di coraggio, dal suo pesciolino Nemo, per potergli assomigliare almeno un po' e sa che se ha potuto sopportare la distanza e nuotare in mezzo al banco senza farsi però trascinare allora forse, ma solo forse, un po' di coraggio comincia ad averlo anche lei.

Franta è appoggiato al muro e sta per aprire il suo inseparabile pacchetto di Petra. I suoi capelli sono più lunghi di come li ricordassi, li tiene legati in una coda bassa che gli arriva quasi ai fianchi e avevo dimenticato quanto gli stesse bene il grembiule bianco che indossa mentre lavora.

Gli sfilo rapidamente il pacchetto dalle dita e lui si volta di scatto, «Quante volte te l'ho detto che fumare fa male?».

I suoi occhi sgranati sono davvero enormi e ha la bocca semiaperta per la sorpresa, «Kris…» mormora facendo un passo verso di me, mi appoggia una mano sulla spalla come per accertarsi che io sia veramente qui ed è terribilmente bello con questa sua faccia stupita e qualche ciocca di capelli che gli cade sulla fronte.
«Sei... sei tornato!» esclama e finalmente un sorriso si apre sul suo volto, il sorriso che avevo tanto sperato di vedere.

Nemmeno un istante dopo il suo viso si è rannuvolato nuovamente. È il mio turno di parlare, ora, sono io quello che deve spiegare i suoi gesti e le sue azioni «Non me ne sono mai andato, mai, la mia testa era sempre qui, passava la Manica, attraversava la Francia e arrivava da te. Io non ho avuto paura, nemmeno un attimo, come quando non avevo paura di Ceněk Kladivo, non è per questo che ho scelto di partire, non è per te che me ne sono andato» la parole vengono fuori da sole, come se me le fossi preparate prima, che alla fin fine è un po' quello che ho fatto durante tutto il viaggio aereo mentre immaginavo come sarebbe stato rivederlo.
«Se sono partito, se ho accettato il lavoro in Inghilterra, è solo per mettermi alla prova. Quanto avrei potuto resistere senza di te? Quanto tempo sarei riuscito a rimanere là sapendo che tu eri distante da me e che magari ti stavo facendo soffrire? Scusami per averti fatto del male, scusami per averti lasciato solo, scusami per non averti spiegato nulla di quello che mi passava per la testa, per non averti mai detto del mio bisogno di mettermi alla prova, di diventare come te, che tiri avanti come un carro armato senza curarti degli altri».

Mi fissa per un istante come se fossi impazzito, poi espira lentamente «Io non tiro sempre avanti, non sono un carro armato, Kris. Io mi fermo, e soffro, per un cretino come te che se ne va sei mesi all'estero e non mi chiama nemmeno una volta, e soffro, perché lo stesso cretino torna e tutto quello che mi sa dire è che voleva mettersi alla prova, e si scusa pure, come se fosse questo ciò di cui ho bisogno. Quello che vorrei è che tu mi guardassi e mi promettessi che non te ne andrai mai più, che non avrai più voglia di allontanarti solo per testare quanto siamo forti» sembra sull'orlo del pianto, e non posso che dargli ragione, sono un cretino.

«Non me ne andrò mai più» sussurro.
«Mai più» ripeto con più convinzione sfiorandogli il volto.

Mi passa la mano dietro il collo e senza tante remore si sporge a baciarmi, un bacio con tutti i crismi, fregandosene altamente della casalinga che stende i panni al di là del cortiletto e del vecchio che fuma la pipa su uno dei balconcini.
Dopotutto è un pesciolino Nemo, uno che ha il coraggio di toccare il motoschifo, e poco gliene importa di cosa potrebbero pensare gli altri.

Si separa da me un po' ansimante e torna ad appoggiarsi al muro, ci sono così tante cose che vorrei dirgli e chiedergli che le parole si accavallano nella mia testa e non riesco a tirare fuori nulla. È lui a rompere il silenzio dopo aver frugato nella tasca del grembiule «Dammi una sigaretta» borbotta fissando il pacchetto che tengo ancora in mano e rigirandosi l'accendino fra le dita.
Ha ancora le mani sottili e femminili, a ventidue anni ha ancora il fisico di quando ne aveva sedici, anche se adesso è più alto e i tratti del suo viso si sono fatti un tantino più decisi.
«Se tu mi presti l'accendino» ribatto sollevando le Petra per tenerle fuori dalla sua portata e un sorriso di sfida lampeggia sul suo volto «Vuoi la guerra, Kris?».
«Vuoi continuare questa discussione a casa, Franta?».
Il sorriso si fa più luminoso «Con immenso piacere, hai molto da farti perdonare» lancia un'occhiata all'orologio «Sei in ritardo di 5106 ore 34 minuti e 19 secondi...» sbuffa prima di abbracciarmi.


Alla fine la sardina non sarà mai un pesciolino Nemo, non sarà mai così sui generis da farsi distinguere dall'intero banco, perché in fondo è nata pesce azzurro e non può certo aspirare ad una livrea così colorata.
Però non è detto che una vita da sardina sia una condanna, dopotutto ognuno di noi ha un paio di pinne, ma solo chi ha abbastanza coraggio impara a nuotare.
Ci sono sardine che sognano correnti diverse che le portino in mari lontani, ci sono sardine che non hanno paura di guardare il grande blu e immaginare di poterlo attraversare, ci sono sardine che un bel giorno decidono che è arrivato il momento di partire per un viaggio che magari le riporterà esattamente al punto di partenza, ma quando torneranno saranno di certo dei pesci diversi.
Il mio viaggio è cominciato sei anni fa, al settimo piano del 27 di stilnice Saská, appartamento g, non è ancora finito e forse non finirà, ma intanto io ho la certezza di essere una sardina ben diversa dalle altre, perché solo a me František Ruzicka, il pesciolino Nemo, sorride in quel modo.
 
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